Donald Trump ha perso nella sua New York,  ma è proprio a Manhattan — dove i due contendenti hanno posto i loro quartier generali — che Hillary Clinton ha perduto la Casa Bianca. Clamorosamente, ma non sorprendentemente. 

E’ a Wall Street che, negli ultimi otto anni, le macerie del terremoto finanziario del 2008 non sono mai state rimosse e ben poco è stato ricostruito sotto il Primo Presidente Afro-Americano, eletto un mese dopo il crack di Lehman Brothers. E non poteva essere che il palazzinaro chiacchierato di tante Trump Tower a coagulare la rabbia e la paura di tutte le Main Street contro i banchieri “impuniti” ed ancora egemoni anche a Washington e nel mondo. Trump li ha potuti guardare negli occhi con ben diversa sicurezza rispetto a un Bernie Sanders (forse ora a Wall Street proveranno a ricucire  col vecchio amico Donald, ma questo è un altro discorso).



E’ stato nei quotidiani e nelle tv liberal della Grande Mela che la campagna elettorale è stata trasformata in Tutto Tranne Trump: con un radicalismo pari a quello anti-politico del nuovo Presidente. Ma inseguire The Donald sul suo terreno ha mandato in pezzi decenni di fasti intellettuali rooseveltiani e kennediani. E lo strano repubblicano asceso alla Casa Bianca ha idealmente saldato il conto del Duello del ’60 fra JFK e Richard Nixon: pur soccombendo in tre confronti televisivi su tre con la sua avversaria (o almeno così hanno detto i sondaggi).



Trump — forse — avrà messo pochi e grossolani contenuti nella sua candidatura: ma di certo Hillary è stata tradita da un New York Times che ancora la mattina del voto non ha trovato di meglio che deplorare il “brutto spettacolo” delle presidenziali. Il Mailgate — al pari dell’incerta ripresa americana drogata dall’espansionismo monetario o della polveriera geopolitica mediorientale — non era e non è questione di estetica istituzionale o di tecnocrazia da addetti ai lavori. A Washington, d’altronde, perfino la “Post” è sembrata dimenticarsi dei tempi gloriosi del Watergate, quando l’Fbi era la Gola Profonda contro i cattivi del Palazzo. Ora i federali stavano puntando sul bersaglio sbagliato e nessun cronista d’assalto è uscito a vedere come stavano davvero le cose: solo editorialisti garantisti e stizziti pro-Hillary.



E’ nelle università della Ivy League, fra Boston e Washington, che l’ideologia politically correct ha aperto la faglia che ieri ha scosso gli States dall’Atlantico al Pacifico: un sisma socio-politico, contro cui poco ha potuto anche il sostegno dato alla candidata democratica dalla California della Silicon Valley e di Hollywood. Banche e Borsa, think tank, media, hi-tech, showbiz: quanti sono stati gli avversari e quanti sono stamattina gli sconfitti dal Candidato Impresentabile che aveva osato sfidare la Candidata Inevitabile, gradita a tutti gli establishment.          

Alla fine l’America non ha voluto dare four more years alla lunghissima presidenza iniziata nel 1988 con Bush Padre e apparentemente destinata a continuare con Clinton Moglie. La Fine della Storia — teorizzata da Francis Fukuyama ad Harvard nell’anno dell’elezione di Bill Clinton — è dunque finita. Era già entrata in crisi l’11 settembre 2001 e il 15 settembre 2008. Ma solo il 9 novembre 2016 diventa chiaro che il mito della globalizzazione tecnologica e finanziaria — con annesso export di democrazia — non è più il Sogno Americano, non ci crede più nemmeno l’America. Forse non è chiaro neppure a Trump, stamattina quale sarà la Next Thing. Forse nemmeno lui — come già si prediceva di Hillary — sarà rieletto fra quattro anni. Però con lui alla Casa Bianca le cose dal 20 gennaio cominceranno a cambiare.