Donald Trump non è stato ancora formalmente eletto presidente degli Stati Uniti: i membri del Collegio elettorale si riuniranno per votare solo il prossimo 19 dicembre; lo scrutinio e la proclamazione del vincitore da parte del Congresso sono previsti per il 6 di gennaio. Tuttavia, Trump ha già provocato il suo primo incidente diplomatico, rispondendo a una chiamata di congratulazioni della presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, rompendo un silenzio diplomatico che durava dal 1979. La reazione di Pechino è arrivata immediatamente, con l’accusa a Taipei di comportamento scorretto e contrario agli accordi e ricordando agli Stati Uniti il loro impegno a riconoscere una sola Cina, quella continentale. La Casa Bianca ha preso le distanze da Trump, sommerso dalle critiche dei suoi oppositori e di molti commentatori; qualcuno ha insinuato che il suo comportamento sia stato dettato dalle trattative in corso per costruire uno dei suoi alberghi sull’isola.



Trump ha obiettato che si è limitato a rispondere alle congratulazioni di un “presidente democraticamente eletto”, sottolineando che gli Stati Uniti, comunque, hanno rapporti commerciali con Taiwan, cui vendono anche armi. Tsai Ing-wen, eletta lo scorso febbraio e prima donna in quest’alta carica, ha un atteggiamento meno conciliante verso Pechino rispetto al suo predecessore e ciò rende più grave la “infrazione” del contatto diretto con il presidente eletto americano. I rapporti tra la Cina continentale e Taiwan sono regolati da una sostanziale ipocrisia formale, che consente però di non far precipitare la situazione. Pechino accetta che all’interno del concetto di “unica Cina” possano coesistere due diversi governi, ma interverrebbe militarmente se Taipei dichiarasse l’indipendenza. Così, il resto del mondo e l’Onu riconoscono solo il governo continentale, ma intrattengono rapporti di fatto normali con l’isola. La citata telefonata è stata vista come una rottura di questo ambiguo equilibrio, rottura addebitata sia a Tsai che a Trump.



A questo punto non è irrilevante cercare di stabilire se si è trattato di un vero e proprio incidente di percorso, dovuto alla scarsa dimestichezza di Trump con la politica internazionale, o se si è di fronte a una prima prova della distanza tra la sua politica estera e quella finora seguita dagli Stati Uniti. Rimane tuttavia probabile che la politica aggressiva della Cina nel Mar Cinese Meridionale avrebbe costretto comunque il nuovo inquilino della Casa Bianca, anche la Clinton, a un atteggiamento più “assertivo” verso Pechino. Le rivendicazioni territoriali in quell’area e la costruzione di impianti militari nelle contese isole Spratly stanno portando a una situazione di pericoloso confronto con vari altri Stati, come Vietnam e Filippine.



Con il Vietnam, tradizionale avversario della Cina e amico della Russia, gli Usa hanno firmato un accordo quest’anno che ha cancellato l’embargo sugli armamenti in vigore dal 1975, un accordo che ha replicato quelli, altrettanto storici, firmati da Obama con Iran e Cuba.

Più problematici si stanno invece dimostrando i rapporti con le Filippine, dove la nuova presidenza di Rodrigo Duterte si è subito contraddistinta per toni e azioni molto forti. In particolare, Duterte ha scatenato una vera e propria guerra contro crimine e spaccio di droga, che pare abbia già causato migliaia di morti, senza grandi distinzioni tra spacciatori e tossicomani. Molta indignazione ha creato il suo paragonarsi a Hitler, pur sostituendo i drogati agli ebrei, e i suoi eccessi hanno portato alle recentissime dimissioni della vicepresidente, Leni Robredo, passata all’opposizione. Duterte ha definito Obama un “figlio di p….”, accusando gli Stati Uniti di ricattare le Filippine per imporre il loro volere nella politica interna ed estera del Paese. Pur non rinnegando il trattato che unisce i due Stati da decenni, Duterte ha dichiarato che Washington non è l’unico fornitore di armamenti per le Filippine, indicando nella Russia di Putin un possibile e benvenuto sostituto. L’autoritario presidente ha perfino aperto a una collaborazione con la Cina, anche se riconosce che con Pechino è aperto un serio contenzioso territoriale, rispetto al quale Manila ha vinto un primo round quest’estate con la sentenza in suo favore della Corte dell’Aia.

Anche in questo quadrante la situazione potrebbe cambiare con l’avvento di Trump, che sembra concordare con le politiche repressive di Duterte (una versione decisamente molto più violenta e senza remore della “tolleranza zero” di Rudy Giuliani a New York), almeno a sentire lo stesso Duterte. Trump, Putin e Duterte: tre “uomini forti” che possono combinare disastri o risolvere situazioni che leader più “illuminati” hanno creato e lasciato incancrenire. Rimane comunque pesante l’ombra del “quarto uomo”, quello di Pechino.