Lo scorso 21 ottobre il governo del Sud Africa ha depositato il suo strumento di recesso dallo Statuto di Roma, il trattato istitutivo della Corte penale internazionale, concluso nel 1998 ed entrato in vigore il 1° luglio 2002. La decisione segue quella del Burundi e precede di pochi giorni l’annuncio di un analogo passo da parte del Gambia, un altro Stato africano. La Corte penale internazionale è accusata di perseguire i crimini commessi dai leader e nei territori africani, ma non quelli commessi in altre parti del mondo, in particolare (ma non solo) da parte delle potenze occidentali. 



In effetti, dalla sua istituzione, la Corte ha aperto indagini in 10 situazioni: Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Repubblica Centro Africana, Darfur (Sudan), Kenya, Libia, Costa d’Avorio, Mali, un secondo caso nella Repubblica Centro Africana e Georgia. Con l’eccezione di quest’ultima, sono tutte situazioni localizzate in Africa. 



Complessivamente, le indagini si sono tradotte nell’apertura di 23 casi e l’emissione di una serie di mandati di arresto (circa una ventina), per la maggior parte rimasti ineseguiti: 6 individui si trovano attualmente nella custodia della Corte, mentre 13 rimangono a piede libero. Solo 5 i processi conclusi: 4 condanne e un’assoluzione. I procedimenti ad oggi pendenti sono 18, di cui: 4 ancora in fase di indagini, 5 in corso di processo, 1 in appello e 3 nella fase relativa alla riparazione alle vittime.

La Corte penale internazionale è stata istituita con il compito di perseguire i crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità commessi nel territorio e/o dai cittadini degli Stati parte. Eccezionalmente, la sua giurisdizione può essere esercitata anche in relazione a crimini commessi nel territorio e dai cittadini di uno Stato non parte, su mandato del Consiglio di sicurezza (che decide con una risoluzione per la cui adozione è richiesto il voto favorevole o comunque il non-veto dei cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Cina). E’ quanto avvenuto per le situazioni del Sudan (Darfur) e della Libia, entrambi due Stati non parte. Ma la Corte è un gigante senza gambe e senza braccia, incapace di operare senza la cooperazione degli Stati. 



Per quanto riguarda il Darfur, il presidente del Sudan Omar Al Bashir è stato il primo capo di Stato in carica ad essere ricercato e la prima persona accusata di genocidio dalla Corte penale internazionale. Nessuno dei due mandati di arresto emessi nei suoi confronti è stato eseguito. Al Bashir rimane libero di muoversi non solo in Sudan ma anche — più o meno ovunque — su tutto il territorio africano. L’accertamento più recente da parte della Corte penale internazionale della mancata cooperazione nell’arresto e nella consegna di Al Bashir è del luglio scorso, e riguarda Uganda e Djibouti — di nuovo due Stati africani. 

Non meno significativa è la sorte dei mandati di arresto spiccati dalla Corte in relazione alla situazione libica: quello nei confronti di Muammar Mohammed Abu Minyar Gaddafi revocato per la morte del Generale, l’altro nei confronti di Abdullah Al-Senussi, dichiarato improcedibile per il concomitante svolgersi di un procedimento dinanzi alle autorità nazionali libiche (sic!). Clamorosa, infine, riguardo alla situazione del Kenya, la decisone del procuratore della Corte penale internazionale di ritirare le accuse contro Kenyatta, il presidente attualmente in carica dello Stato keniota, per mancanza di prove sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio.  

Di fronte a questi dati, è difficile dismettere le critiche dei Paesi africani come destituite di ogni fondamento. Ma le recenti decisioni del Sud Africa e del Gambia lanciano un segnale di allarme che va al di là della manifestazione di una posizione critica da parte di Stati parte di un continente che si ritrova il bersaglio principale, per non dire pressoché esclusivo, della più moderna e sofisticata macchina di amministrazione della giustizia penale internazionale, mai creata.

Con il recesso dei tre Paesi africani — che, si noti bene, non ha precedenti nella storia della Corte e comunque costituisce un’eventualità rara nella storia delle relazioni internazionali (si pensi al clamore sul Brexit!) — il numero degli Stati parte passerà da 124 a 121, di cui 31 africani, 19 dell’Asia e del Pacifico, 18 dell’Europa orientale, 28 dell’America latina e Caraibici e 25 dell’Europa occidentale e altri Stati. Tra i grandi assenti gli Stati Uniti (già all’epoca della presidenza Clinton, per il timore che la Corte possa processare i militari Usa impegnati in operazioni di pace o interventi militari all’estero), ma anche Cina, Israele, India, Indonesia, Iraq, Libia, Qatar, Russia, Arabia Saudita, Sudan, Yemen e Siria. 

L’uscita di uno Stato dallo Statuto di Roma comporta due conseguenze principali. La prima: il venir meno della soggezione alla giurisdizione generale della Corte sui crimini commessi dai suoi cittadini nel suo territorio (a meno che non intervenga una risoluzione del Consiglio di sicurezza). La seconda — altrettanto significativa — è il venir meno dell’obbligo di cooperazione nell’esecuzione delle richieste di arresto e consegna nonché per l’assunzione di prove della Corte, che è — come si è detto — incapace di operare senza la cooperazione appunto dei suoi Stati parte.

Ora, l’abbandono del Sud Africa è sua volta significativo almeno per due ragioni. Innanzitutto, perché il Sud Africa non è un Paese che in questo momento rischia di essere oggetto di indagini da parte del Procuratore: il suo recesso dunque non avrà pressoché nessun impatto sull’esercizio della giurisdizione della Corte. Ma avrà invece ripercussioni assai significative sulle capacità — già limitate per Statuto — di quest’ultima di eseguire i suoi mandati di arresto; il che, ad avviso di chi scrive, è più grave. Vale la pena ricordarlo, questa Corte non ha il potere di procedere in contumacia, ma richiede, perché possa svolgersi il processo, la presenza (volontaria o coartata) dell’accusato.  

Il Sud Africa dice no, non per difendere se stesso o i propri uomini al potere. Dice no al continuare a porsi come destinatario — ancor pure nominale — delle richieste di cooperazione della Corte. L’occasione dell’annuncio è stata in effetti la visita a Johannesburg del presidente sudanese Al Bashir in occasione di un meeting dell’Unità Africana. Il Sud Africa poi è un Paese democratico ed è questa l’altra importante ragione per cui il suo ritiro è destinato ad avere un’eco profonda, anche oltre il continente africano.

Infine, il recesso annunciato dal Gambia apre un nuovo ulteriore vulnus all’operatività così come alla credibilità della Corte, il cui Procuratore — cui spetta il potere di iniziativa sia in fase di indagini che di esercizio dell’azione penale, sia pure sotto il controllo dei giudici — è cittadino del Gambia, e il cui mandato, seguito a quello di Moreno Ocampo (il primo procuratore della Corte di nazionalità argentina), era stato voluto e salutato proprio come segno dell’imparzialità e obiettività di una Corte che davvero ci si sarebbe aspettati avrebbe potuto contribuire alla realizzazione del sogno di molti (inclusa chi scrive) di una giustizia penale internazionale. E invece pare proprio che questa Corte nuoccia alla causa della giustizia, e non senza costi, finanziari e non per tutti, compresi i nostri contribuenti. Secondo il bilancio di previsione, il budget della Corte per il 2017 supera i 147 milioni di euro (con un aumento del 7,2% rispetto al budget del 2016). A settembre 2015, l’Italia aveva già versato oltre 85 milioni di euro, con un contributo che attualmente si aggira intorno ai 9 milioni di euro l’anno.