SOUTH BEND (Indiana) — Negli ultimi giorni alcuni osservatori politici si sono messi il cuore in pace identificando nel neo-eletto presidente il maggiore problema sociale del Paese. Ma non è così. La concezione politica impersonale di Trump riflette una cultura impersonale che influenza tutti, chi scrive e chi legge, in quanto uomini e donne delle moderne società occidentali. Chiunque di noi contribuisce ad alimentare i problemi della società quando asseconda la cultura impersonale del potere dominante. Tutti noi possiamo constatare la facilità con cui riduciamo l’altro a strumento che soddisfa un nostro progetto o piacere, oppure a nemico, altre volte a concorrente ecc. Nessuno può dirsi immune alla cultura che respiriamo. Per esempio, “alziamo muri” se l’altro non pensa o agisce come noi (l’altro come nemico); invidiamo il successo degli altri, anche quando sono amici!, perché siamo imbevuti di una mentalità competitiva (l’altro come concorrente); etichettiamo le persone per un talento o un problema, vizio o virtù e non vediamo più in là dell’etichetta (l’altro come stereotipo); giudichiamo in base alle apparenze (l’altro come immagine), eccetera. 



Siamo immersi in una cultura impersonale che plasma radicalmente il modo in cui entriamo in rapporto con l’altro e con la realtà. Faccio un esempio. Qualche giorno fa stavo facendo del volontariato con alcuni amici. Per pubblicizzare il nostro banchetto, presso cui vendevamo dolci e panini per finanziare alcuni progetti a sostegno degli immigrati siriani, alcuni di noi interloquivano con le persone di passaggio. Parecchie persone si fermavano. Alcuni lasciavano offerte senza nemmeno comprare i nostri prodotti. La nostra azione era efficace. Uno degli amici con cui stavo facendo volontariato, però, ci suggerisce di metterci dietro al banchetto per non disturbare le persone. Questo episodio, dopo avermi fatto arrabbiare (ma l’arrabbiatura è durata pochi istanti), mi ha fatto molto riflettere. Cosa ci suggeriva il mio amico? Una forma. Una forma che, probabilmente sulla base di una certa abitudine, pensava essere la più adeguata alla situazione. Qual è il problema? Quella forma gli impediva di vedere la realtà. Se avesse messo da parte la “forma” si sarebbe reso conto che in quel momento le persone erano ben contente di fermarsi al banchetto. Questo formalismo è un cancro intellettuale che annienta il rapporto con la realtà, con l’uomo singolare, con la situazione particolare che abbiamo davanti ai nostri occhi. Ci aliena da tutti e da tutto.



L’angoscia e la rabbia, che Yardley individua come le emozioni dominanti della società americana, cosa sono? Sono segni di un profondo malessere esistenziale. Perché viviamo questo malessere esistenziale oggi? Secondo me perché la nostra cultura è impersonale (con le sue declinazioni, formalismo, pragmatismo ecc.). Perché è diventata ovvia la riduzione della persona a strumento, oggetto, pretesto, concorrente, nemico. Di qui la violenza, la divisione, la guerra… 

Questa constatazione fa piangere. Ma questo pianto cosa dice di noi? Dice che non ci basta il mondo che anche noi contribuiamo a creare con il nostro conformismo al potere; dice che abbiamo bisogno di ascoltarci per vivere, che abbiamo bisogno di comprenderci l’un l’altro, che per quanto sia stata grande la nostra distrazione o connivenza alla cultura dominante, abbiamo bisogno di accostarci umilmente all’altro, cominciando da chi vive accanto a noi. Ciascuno ogni giorno nella sua quotidianità, in cui si rispecchiano le vicende del mondo intero, prende posizione di fronte a questa emergenza esistenziale. 



La politica può dare soluzioni a questo problema esistenziale? No. Tuttavia, il politico, se vuole essere tale, deve essere o diventare consapevole della natura esistenziale, umana dei nostri problemi politici. Per esempio, Bernie Sanders è un politico. Benché alcuni osservatori equiparino Sanders a Trump — sulle colonne del New York Times Brooks paragonava l’autoritarismo (populista) di Trump al socialismo di Sanders (“New Life in the Center”, 29 novembre) — finora c’è una differenza sostanziale nel loro linguaggio politico. Il linguaggio politico di Sanders è personale. “La politica è solo locale” (“all politics is local”) recita il quinto punto della dichiarazione del movimento politico, Our Revolution (“La nostra rivoluzione”) nato a seguito della sua campagna elettorale. Nei giorni successivi le elezioni Sanders ha già messo in chiaro che la sua riforma del partito democratico (a cui partecipa in qualità di Outreach Chair) avverrà attraverso il coinvolgimento dei singoli cittadini e grazie a politici che, come Keith Ellison (sostenuto da Sanders per diventare Chair del partito democratico), intendono considerare i bisogni e i problemi della gente comune. Quando ascolto Sanders capisco che sente sulla sua pelle l’ingiustizia sociale per cui in America i ricchi arricchiscono e i poveri impoveriscono. Il suo impeto ideale, la sua sensibilità umana lo rendono un vero politico, con cui si può dissentire su molte posizioni, certo, ma con cui si può dialogare, purché lo si voglia, qualunque sia lo schieramento politico a cui si appartiene. 

“We live in a very interesting time” (“Viviamo in un’epoca estremamente interessante”) mi ha detto una mia amica a conclusione di un dialogo sulla politica in questi giorni. È proprio così. A patto che non facciamo sconti a noi stessi sull’emergenza esistenziale che ciascuno di noi vive. Prendere consapevolezza di questa emergenza è il solo modo possibile per rintracciare nella realtà un aiuto all’altezza del nostro problema che, nel tempo, possa riconquistarci al dovere e alla gioia di edificare una civiltà pienamente umana.

 

(3 – fine)