“Il mondo ha chiuso gli occhi su quanto sta avvenendo nello Yemen”: questa dichiarazione alla BBC di Jamie McGoldrick, rappresentante dell’Onu nello Yemen, descrive bene la drammatica situazione del Paese, il più povero del Medio Oriente già prima della guerra civile. La metà dei circa 28 milioni di abitanti ha difficoltà a procurarsi una sufficiente alimentazione e, secondo l’Onu, almeno sette milioni sono già alla fame, di cui più di due milioni di bambini. In questi giorni Reuters ha riportato la notizia della sospensione delle importazioni di granaglie per l’impossibilità di effettuare i pagamenti in dollari e le fazioni in lotta si accusano reciprocamente della responsabilità di questo gravissimo peggioramento. La situazione è molto pesante anche sotto il profilo sanitario e di accesso alle risorse idriche, con difficoltà che coinvolgerebbero quasi 20 milioni di yemeniti. Secondo organizzazioni umanitarie operanti in loco la metà delle strutture sanitarie è inattiva, perché distrutte dai bombardamenti o per mancanza di fondi. Anche McGoldrick ha denunciato la mancanza di fondi, tanto più che è arrivato solo il 50% di quelli promessi: “La politica ha preso il sopravvento sull’umanità”.



A questa drammatica situazione vanno aggiunti circa tre milioni di rifugiati all’interno del Paese, 10mila morti e circa 37mila feriti, in gran parte civili e conseguenza dei bombardamenti aerei della coalizione guidata dai sauditi. Ciò ha portato accuse di crimini di guerra soprattutto nei confronti della coalizione saudita, anche se gli Houthi non sono rimasti immuni dalle critiche. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito si è scatenato un vivace dibattito, dato che i due Stati sono i maggiori fornitori di armi all’Arabia Saudita, le cui importazioni nel 2015 hanno contato per circa il 15% del mercato totale degli armamenti. Le critiche si sono appuntate in particolare sulla fornitura di bombe a grappoli, da molti considerate fuori legge, ma il Congresso dominato dai Repubblicani ha in questa occasione affiancato il presidente Obama, respingendone la messa al bando. Negli ultimi tempi, tuttavia, lo stesso Obama ha preso qualche distanza dal modo in cui i sauditi conducono la guerra, così cautamente però da essere senza conseguenze. Anche il nuovo governo britannico ha mantenuto la sua posizione al fianco di Riyadh.



Alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita partecipano anche Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Canada e i loro governi potrebbero essere essenziali nella ricerca di una soluzione definitiva al marasma yemenita e alla crisi umanitaria che ne consegue. Tuttavia, le loro posizioni sembrano appiattite su quelle di Riyadh ed è pensabile che le esportazioni di armamenti condizionino anche gli atteggiamenti di altri governi europei. Per la verità, il Parlamento europeo si è espresso per un blocco della vendita di armi ai sauditi, ma si tratta solo di un parere consultivo, che si dimostrerà inincidente. 



Lo Yemen è sempre stato un Paese piuttosto turbolento e fino al 1990 era diviso in due Stati separati, Yemen del Nord e Yemen del Sud: per alcuni il ritorno a questa suddivisione potrebbe essere l’unica soluzione al conflitto attuale. L’ostacolo principale a una soluzione condivisa rimane la reticenza saudita a concedere potere agli Houthi che, in quanto appartenenti alla setta sciita degli zahid, vengono considerati longa manus dell’Iran. E’ del tutto probabile che l’Iran veda con favore la sollevazione degli Houthi, in quanto destabilizzante l’avversario saudita, ma la sua presenza sembra molto meno diretta rispetto al sostegno dato agli sciiti in Siria. Inoltre, Riyadh teme che ogni concessione fatta agli Houthi potrebbe portare a richieste analoghe della minoranza sciita in Arabia Saudita, difficilmente tollerabili dalla dinastia regnante, sostenuta dai radicali wahabiti che considerano gli sciiti eretici da condannare senza remore.

A differenza della Siria, dove i ribelli sono i “buoni” e quindi sostenuti da Stati Uniti e Occidente, qui i ribelli sono i “cattivi” e l’Occidente si schiera con i “buoni” di Riyadh. E pazienza per i “danni collaterali” sopra descritti, con buona pace delle organizzazioni umanitarie e perfino dell’Onu.