Mi sono appassionato delle vicende siriane perché ho conosciuto l’esperienza delle monache trappiste di Azeir in Siria, circostanza avvenuta all’inizio del conflitto. E’ stata suor Annunciata del monastero di Valserena a raccontarmi per la prima volta la sua esperienza in una terra dove la gente ha percezione del sacro nel quotidiano, un fatto di per sé rivoluzionario. Lo sfondo era uno stato in cui la democrazia era in evoluzione ma che permetteva a tutti piena libertà di culto. 



Poi è accaduta la cosa peggiore che poteva accadere: una rivoluzione che distrugge la memoria. Le miei amiche monache trappiste hanno sempre sottolineato l’illogicità di quando stava avvenendo, intervenendo anche pubblicamente: lo hanno fatto perché ancora oggi tutti contano i morti causati dai governativi, ma trascurano che i ribelli per prima cosa hanno aggredito il fondamento di una sensibilità umanamente visibile, cioè l’unica possibilità per il popolo, di costringere pacificamente il potere ad essere vero ed autentico.



Purtroppo sappiamo com’è andata: l’occidente ha pensato o ha finto di credere (per interessi terzi), di poter sostituire una società libera con una società confessionale avente la sharia come legge fondamentale. Sappiamo che scartato il progetto di “regime change” affidato in un primo tempo ai fratelli musulmani, nella seconda fase della guerra il “piano B” americano è stato quello di dividere il paese in etnie e gruppi religiosi, affidandone la realizzazione ai gruppi armati salafiti. In questo ultimo piano, i cristiani semplicemente non esistevano, essendo localizzati a macchia di leopardo in tutto il paese. 



I segni di questo progetto sono davanti gli occhi di tutti: i tre quarti dei cristiani sono fuggiti perché presi di mira dal radicalismo islamico d’importazione, la maggior parte delle chiese nei territori occupati sono state distrutte. Non una guerra civile quindi ma una guerra voluta dall’esterno: al di là delle chiacchiere, i fatti sono fatti ed è un fatto che solo il 10 per cento dei combattenti fuoriusciti da Aleppo est sono siriani. Questo elemento costituisce, da solo, una utile “didascalia” del quadro del conflitto siriano.

Ora siamo appena dopo il Santo Natale e ci accingiamo al nuovo anno. In tutti i cristiani è forte il desiderio che il mondo accetti la novità che il bambino Gesù introduce nella storia. Cristo porta una promessa, una dignità nuova all’uomo. E’ questa consapevolezza che ha permesso di festeggiare il Natale ai nostri fratelli siriani, nonostante le circostanze dure. Ma il potere semplicemente ignora il positivo del Natale, la speranza esistenziale e storica che ci comunica. Per questo, nessuna immagine dei festeggiamenti per l’avvenuta liberazione di Aleppo ci è stata mostrata dai principali media: nessuno ha visto il gigantesco albero di Natale armeno di Aleppo, nel quartiere Aziziya, divenuto punto di ritrovo per tanti musulmani e cristiani per festeggiare insieme. Oblio anche sulle prime messe di Natale, che per la prima volta dopo cinque anni è stato possibile celebrare. Silenzio persino sul fatto che “un milione di persone è tornato in città dopo la liberazione” (Asia News). 

Eppure sono immagini che fanno bene al cuore (e che ho avuto l’opportunità di vedere grazie ad amici siriani): a prescindere da ogni altra considerazione per la cruda contabilità di morte che porta con sé ogni guerra, aiutano a comprendere che ciò che chiedono i siriani non coincide con il progetto messo in atto dall’occidente, sotto le spoglie di una nuova “primavera araba” 2.

Dopo ripetuti errori, dovrebbe essere chiaro che il problema di fondo che ha scosso il mondo (e che ci ha portato di nuovo sull’orlo di una guerra nucleare con la Russia), non è la Siria: è nelle nostre società. Precisamente, “il problema” si proietta in tutto ciò che i nostri leader politici guardano: il problema è l’inadeguatezza della loro visione delle cose. Ciò si ripercuote nei modi che prospettano per risolvere e rispondere alle domande degli uomini nelle società. Sembra che i leader politici non si accorgano che la richiesta dei propri cittadini non è più quella di un programma particolare ma che essi si mettano al loro servizio. Sì, perché i cittadini si sono accorti che il potere, di fronte alla crisi globale nella quale ci troviamo, anziché convincersi a cambiare rotta, sia più allettato dal vecchio metodo “risolutivo” delle guerre, dell’insicurezza e della perdita di sovranità dei popoli.