I servizi segreti tedeschi avevano avvisato quelli italiani dei rischi legati all’attentatore di Berlino? Anis Amri ha potuto contare su complicità in paesi come Olanda, Belgio, Germania o Francia? Certo ad oggi tutto è possibile, ma incomprensibilmente nessuno si sofferma su un dato evidente. L’Italia è ormai da tempo la retrovia logistica, organizzativa e il luogo privilegiato di indottrinamento di molto gruppi jihadisti. 



Il panorama attuale del jihadismo in Italia è estremamente complesso, caratterizzato dalla presenza di numerosi attori con caratteristiche diverse. L’arrivo del jihadismo autoctono che fa riferimento al caso Del Nevo e a quello della più recente condanna di un’intera famiglia campana non vuol dire che network “tradizionali” non siano più presenti. Molti di loro sono stati fortemente indeboliti dalle ondate di arresti ed espulsioni eseguite dalle autorità italiane nel corso degli ultimi anni. E alcuni importanti jihadisti hanno volontariamente lasciato l’Italia in seguito alla primavera araba per unirsi alle tante formazioni jihadiste attive in Nord Africa. 



Ma, come recita la Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza dell’intelligence italiana al Parlamento del 2012, individui e nuclei legati a vari network jihadisti, soprattutto nordafricani, sono ancora attivi nel nostro paese. Seguendo dinamiche di lunga data, la maggior parte di questi network è basata in Lombardia, ma presenze importanti sussistono anche in Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Campania. In alcuni casi la loro presenza viene rilevata anche in altre regioni, come nell’operazione eseguita dal Ros dei Carabinieri nel maggio 2013. L’operazione, denominata “Masrah”, portò allo smantellamento di una cellula di militanti nordafricani operanti tra la Puglia, la Sicilia e il Belgio. Gli inquirenti accusano gli arrestati, immigrati di prima generazione con forti legami con la “vecchia guardia” di viale Jenner, di reclutare militanti e pianificare attentati contro obiettivi americani, israeliani e italiani. 



Negli ultimi tempi, tra tutti questi network “tradizionali” le autorità italiane hanno iniziato a nutrire particolari timori nei confronti di quelli tunisini. Come tunisino era Amri. Del resto sono forti i legami con l’Italia da parte di molti dei leader del ramo tunisino di Ansar al-Sharia, il gruppo salafita con marcate tendenze jihadiste e che sin dalla sua fondazione, dopo la caduta di Ben Ali, ha posto una notevole minaccia alla stabilità politica e alla sicurezza della Tunisia post-rivoluzionaria. Molti di essi, infatti, vissero in Italia e nelle varie operazioni dei primi anni Duemila furono arrestati nel nostro paese e poi espulsi verso la Tunisia di Ben Ali, dove scontarono un altro periodo in detenzione.

Tra di loro sono numerosi coloro che hanno conservato contatti in Italia e gli indizi portano a pensare che i legami con il nostro paese siano utilizzati per ottenere varie forme di supporto logistico per la loro lotta in Tunisia. L’obiettivo principale di Ansar al-Sharia sembra essere la formazione di uno stato islamico in Tunisia e non ci sono indicazioni che facciano pensare che il gruppo al momento abbia intenzione di attaccare l’Italia. Ma è plausibile che l’Italia non sia terra di attentati perché gli stessi attentatori non desiderano che lo diventi. In qualsiasi conflitto il retroterra strategico è necessario. Così come le risorse umane che costituiscono la riserva. Dopo la morte di Amri occorre moltiplicare occhi ed orecchie per prevenire eventuali ritorsioni.