La recente campagna presidenziale americana è stata una delle più discusse, con due candidati “fuori sistema” fortemente contrastati dagli apparati dei loro partiti: il Democratico Bernie Sanders, sconfitto, e Donald Trump, eletto presidente. La battaglia è continuata anche dopo la elezione di Trump con una serie di tentativi per contrastare la sua elezione, oltre che con manifestazioni di protesta particolarmente vivaci. Alcuni di questi tentativi appaiono abbastanza pretestuosi, come la continua sottolineatura del maggior numero di voti popolari ottenuti da Hillary Clinton per indicare una sorta di non legittimazione di Trump alla presidenza. Quasi si volesse far dimenticare che il sistema elettorale è di tipo uninominale, dove contano i voti attribuiti al collegio elettorale dai vari stati e non è inusuale che il vincitore ottenga meno voti popolari del perdente. Il collegio elettorale è stato sottoposto a pressioni per cercare di convincere i grandi elettori repubblicani a non votare Trump, una strada in salita dato che ha superato di 36 voti la maggioranza richiesta per l’elezione. L’esito è stato paradossale, perché sono stati più numerosi i delegati democratici contrari alla Clinton rispetto ai repubblicani che non hanno confermato Trump.



Durante le primarie, i computer del Comitato nazionale del Partito democratico sono stati violati da hacker e i dati resi pubblici hanno indicato un chiaro boicottaggio di Sanders da parte dell’apparato del partito. Una “preferenza” diventata evidente durante le votazioni, con la schiacciante maggioranza dei voti dei rappresentanti del partito a favore di Hillary. Distorsioni che hanno già portato alla richiesta di revisione delle norme che regolano le primarie democratiche, troppo sbilanciate a favore dell’apparato di partito. 



Anche le indignate reazioni per le supposte interferenze russe lasciano piuttosto perplessi. Gli Stati Uniti hanno una lunga tradizione di ingerenza nelle elezioni di altri Stati, si pensi solo all’America Latina, e non sempre limitate a violazioni di computer. Queste operazioni potevano essere considerate una conseguenza della contrapposizione con il blocco sovietico, ma la caduta dell’Urss non vi ha apparentemente posto fine. Nel 2014 si è verificata una crisi diplomatica tra Stati Uniti e Germania proprio per le attività di spionaggio americane sui vertici dello Stato tedesco, cioè di un alleato. Quest’anno, in occasione del referendum sul Brexit, Obama è intervenuto pesantemente in favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, così come sono difficilmente negabili le interferenze nella crisi ucraina. L’elenco potrebbe continuare e potrebbe essere esteso a tutti i servizi segreti del mondo. Appare quindi del tutto strumentale e a fini di partito l’indignazione per le eventuali interferenze russe. Oltretutto, queste polemiche rischiano di evidenziare come i russi si siano dimostrati molto più abili degli americani e della loro vantata superiorità tecnologica. 



C’è poi da chiedersi a vantaggio di chi vada l’inevitabile indebolimento di Trump a neppure un mese dalla sua entrata alla Casa Bianca e se questo sia nell’interesse del Paese. Né grandi vantaggi possono arrivare allo stesso Partito democratico, in grave crisi quanto il suo avversario repubblicano. Infatti, molti pensano che l’elezione di Trump derivi in gran parte dalla delusione nei confronti della gestione Obama e dagli errori commessi dai democratici durante la campagna elettorale. Lo stesso Obama sembra avvalorare questa ipotesi nel momento in cui dichiara che, se fosse stato lui il candidato, Trump non avrebbe vinto. Una chiara sottolineatura della non adeguatezza di Hillary Clinton, a meno che voglia sottendere che con lui candidato i russi si sarebbero disinteressati delle elezioni, il che suonerebbe alquanto strano.

La battaglia democrat per contrastare l’elezione di Trump ha trovato terreno fertile nell’aperta simpatia che il candidato repubblicano ha ripetutamente manifestato nei confronti di Putin, fino a essere definito dai suoi avversari “burattino di Putin”. Tuttavia, ora che Trump ha indiscutibilmente vinto le elezioni risulta incomprensibile il comportamento del presidente uscente che, come detto, rischia solo di indebolire il Paese di fronte a una situazione internazionale, oltre che economica, molto difficile. Obama ha dato inizio a misure di rappresaglia, con l’espulsione di 35 diplomatici russi, ancora prima di avere i risultati di un’indagine sulle presunte ingerenze del Cremlino da lui stesso commissionata. Immediate le minacce di ritorsioni da parte del ministro degli Esteri russo, ma Putin ha gettato acqua sul fuoco affermando di non volersi abbassare a quella che ha definito una “politica da cucina” e dicendosi meravigliato che Obama volesse chiudere in questo modo la sua presidenza. Ha poi inviato i suoi auguri per il nuovo anno a Obama, la sua famiglia, Trump e a tutti gli americani. Di fronte all’azzardato comportamento di Obama, che richiama una sorta di “muoia Sansone con tutti i Filistei”, la risposta di Putin suona un ragionevole tentativo di non far precipitare la situazione. Anche perché la politica estera di Obama appare sempre più fallimentare, come dimostra il pur labile “cessate il fuoco” raggiunto in Siria, ma comunque senza la partecipazione degli Stati Uniti.

Se si esclude l’ipotesi estrema, ventilata da qualche commentatore, di un’operazione tesa all’impeachment di Trump, si può pensare a un tentativo di parte democratica di condizionare in modo pesante la sua futura politica estera. Anche se con sistemi da avvelenamento dei pozzi che rischiano di sfuggire al controllo. Comunque sia, sono evidenti i segnali di una forte crisi istituzionale di questa importante democrazia, crisi di cui Trump sembrerebbe il risultato piuttosto che la causa. Suona molto appropriato il titolo di un incontro programmato per il prossimo New York Encounter: “Sono gli americani che stanno tradendo il loro Sogno? O è il Sogno Americano che sta tradendo il suo popolo?”