Il recente accordo sul taglio della produzione di petrolio dell’Opec ha un indubbio valore, se non altro perché è la prima decisione in tal senso da otto anni. Molti sono, tuttavia, i dubbi sull’effettiva tenuta dell’accordo e sulla sua reale efficacia, come illustrato da Mauro Bottarelli sul sussidiario, né sono così chiari i possibili risvolti geopolitici, sempre presenti quando si tratta di petrolio. 



I governi del Medio Oriente, come tutti, davano per scontata la vittoria di Hillary Clinton e la continuazione, con toni più decisi, della politica estera di Barack Obama. La elezione di Donald Trump costringe ora a riesaminare le proprie politiche estere, sulla base di ipotesi sull’evoluzione  di quella americana. In quest’ottica penso si possa valutare anche l’apertura, finora giudicata impossibile, dell’Arabia Saudita di fronte alle richieste del nemico per eccellenza, l’Iran.



In Iran la politica estera, come quella interna, è fortemente condizionata dalla contrapposizione tra l’ala progressista e quella conservatrice della gerarchia ecclesiastica sciita. La cancellazione dell’accordo sul nucleare, minacciata da Trump, significherebbe la vittoria dei conservatori, con gravi ripercussioni in tutta la regione e rendendo molto difficile la situazione anche per la nuova Amministrazione americana.

La nomina del “falco” James Mattis al Pentagono e la decisione del Senato di prolungare la minaccia delle sanzioni sembrerebbero peraltro aumentare le probabilità di una chiusura verso l’Iran. Tuttavia, si può sperare che il realismo, che non dovrebbe mancare a “The Donald”, porti solo a una maggiore rigorosità nell’applicazione del trattato. Una riapertura delle ostilità tra Stati Uniti e Iran avvantaggerebbe soprattutto l’Arabia Saudita, verso la quale Trump sembrerebbe volersi discostare dall’appoggio senza riserve delle precedenti Amministrazioni.



Quanto all’Arabia Saudita, anche nella sterminata famiglia reale che la controlla  stanno venendo alla ribalta personaggi che tendono a staccarsi dall’immobilismo fondamentalista caratteristico di questo Paese. 

La guida indiscussa di questa corrente innovativa è il principe Mohammad bin Salman, secondo nella successione al trono dopo il cugino Muhammad bin Nayef, potente ministro degli Interni. Bin Salman è il promotore del Saudi Vision 2030, un piano per l’ammodernamento del Paese, in cui giocano una parte determinante i giovani e le loro necessità.

Come ricorda un documentato articolo di NBC News, in Arabia Saudita si stima che il 65% della popolazione sia sotto i 30 anni, con un grave problema di disoccupazione giovanile, non risolvibile con la sola industria del petrolio. Un punto centrale del piano è infatti la progressiva, benché rapida, uscita dalla totale dipendenza del petrolio, per trasformarsi in “un epicentro del commercio e una porta aperta al mondo“.

Bin Salman ha anche dichiarato: “La nostra è la visione di un Paese tollerante, con l’islam come sua costituzione e la moderazione come suo metodo“. Come ministro della Difesa, il Principe si è peraltro dimostrato molto duro, per esempio nella guerra in Yemen, la cui conduzione ha suscitato riprovazione a livello internazionale e ha permesso alla Russia di ritorcere contro Arabia e Stati Uniti le accuse di crimini di guerra a lei rivolte per le azioni in Siria.

Iran e Arabia Saudita sembrano comunque dar adito a qualche possibilità di evoluzione positiva, ma un terzo e importante protagonista regionale, la Turchia, dà invece sempre più espliciti segnali di involuzione. Con la sua reazione estremamente dura al fallito colpo di Stato, il governo di Erdogan sta sempre più diventando un regime autoritario e irrispettoso dei diritti civili. Ciò ha portato il Parlamento Europeo a votare, alla fine di novembre, una risoluzione con la quale invita la Commissione a sospendere le trattative per l’associazione della Turchia. Benché solo consultiva, la risoluzione ha provocato pesanti reazioni turche, con la minaccia di riaprire le frontiere all’immigrazione di massa verso l’Europa.
Il Primo ministro turco ha dichiarato che l’Europa deve decidere con chi allearsi, se con la Turchia, chiave della sicurezza europea, o con i terroristi che scorrazzano liberamente sul suo territorio. Il riferimento è al PKK curdo, che ha ripreso gli attentati dopo il fallimento dei tentativi di accordo tra il capo del PKK, Ocalan, e lo stesso Erdogan. Gli interventi militari turchi contro i curdi in Siria e Iraq rimangono un grosso ostacolo alla stabilizzazione dell’area e anche l’Europa dovrà, prima o poi, prendere una chiara posizione sulla questione curda. Che non è certamente solo un problema di terrorismo.

Se i rapporti con l’Europa sono tesi, non si può dire che quelli con la Russia siano del tutto tranquilli. Nonostante la lettera di scuse di Erdogan per l’abbattimento di un caccia russo nel novembre 2015, le sanzioni russe sono state ritirate solo in parte, anche se le discussioni continuano. Un accordo tra Russia e Turchia è essenziale per giungere a una tregua ad Aleppo, che si spera potrebbe poi evolvere fino a una cessazione del conflitto in Siria. 

Ma la posizione della Turchia rimane ambigua ed Erdogan ha recentemente dichiarato che l’obiettivo della Turchia rimane la caduta di Assad. Le rispettive diplomazie hanno poi ricucito e i colloqui per la tregua sono ripresi. La situazione è tornata critica dopo due attacchi aerei, attribuiti al regime siriano, che hanno provocato morti e feriti tra i militari turchi che fiancheggiano i ribelli siriani nel tentativo di liberare dall’Isis la cittadina di al Bab.  

La politica di Erdogan, definita neo ottomana, sta producendo il progressivo isolamento della Turchia, rendendola una pericolosa mina per l’intero Medio Oriente e per l’Europa. Anche per il pragmatico Donald Trump non sarà facile risolvere il tragico puzzle mediorientale.