“La proposta russa di un cessate il fuoco in Siria è una mano tesa agli Stati Uniti che non hanno più alcuna carta da giocare. Anche se Washington cerca di usarla a proprio vantaggio tenendo in piedi quel che resta dell’opposizione ad Assad”. E’ quanto osserva Gian Micalessin, inviato di guerra de Il Giornale. Il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavorv, ieri aveva dichiarato alla Tass: “Abbiamo fatto delle proposte per mettere in atto un cessate il fuoco, proposte molto specifiche. Stiamo aspettando una risposta degli Stati Uniti prima di presentarle davanti all’International Syria Support Group”, del quale fanno parte 17 Paesi nonché Onu, Ue e Lega araba. Un funzionario americano citato dalla AP aveva fatto sapere sotto anonimato che la Casa Bianca non vedeva l’ora di accettare le proposte di Mosca, aggiungendo però che Washington preferisce un “cessate il fuoco immediato”. Nella notte l’accordo è stato raggiunto: il Gruppo internazionale di sostegno alla Siria, dopo una lunga trattativa, ha fissato in una settimana il termine entro il quale arrivare ad una fine delle ostilità.
Accordo raggiunto dunque. Perché questa proposta di cessate il fuoco è arrivata proprio adesso?
La Russia con l’offensiva iniziata lo scorso settembre punta chiaramente a sbaragliare le formazioni jihadiste e comunque l’opposizione armata appoggiata da Erdogan, aprendo la strada all’esercito siriano fino alla frontiera turca. Gli Usa invece non avevano più carte da giocare. L’unica alternativa per gli americani era cedere alle pressioni turche e creare una pericolosissima no fly zone sulla Siria, dove avrebbero rischiato di entrare in collisione se non in scontro diretto con gli aerei russi impegnati nei bombardamenti.
Con quali conseguenze?
Si sarebbe realmente rischiata una terza guerra mondiale: un pericolo che Obama non intende sicuramente correre, soprattutto alla vigilia della fine del suo mandato.
Alla fine si è trovata una mediazione, sette giorni per il cessate il fuoco.
Washington ha cercato di giocare a proprio vantaggio e di avere almeno in mano qualche carta, il che vuol dire tenere in piedi un’opposizione in grado di fronteggiare Bashar Assad. Se si fosse atteso il 1° marzo come richiesto dai russi, l’opposizione sarebbe stata spazzata via e soprattutto non avrebbe più avuto alcun contatto con quella frontiera turca che è imprescindibile per garantire appoggio e sostegno ai combattenti che si oppongono ad Assad.
Nel frattempo il premier irakeno Al-Abadi ha chiesto all’Italia di accelerare l’invio delle truppe per proteggere la diga di Mosul. Come ha fatto a vincere le obiezioni di parte del suo stesso governo?
Evidentemente sono venute meno le resistenze dei gruppi sciiti che si opponevano all’invio di truppe italiane e che rivendicavano a sé la difesa di quella diga. Molto probabilmente il governo irakeno ha risolto questo problema.
Veniamo alla Libia. Come sta evolvendo la situazione?
La situazione in Libia è molto incerta. Fino a quando non si riesce a mettere in piedi un governo di unità nazionale, sarà molto difficile presentare una richiesta di intervento internazionale. Dal punto di vista della legalità internazionale solo questo governo può richiedere un intervento che sia legittimo. Se d’altra parte questo governo non riesce nemmeno a farsi votare la fiducia dal Parlamento di Tobruk, che in teoria dovrebbe essere quello più vicino alle istanze occidentali, significa che siamo ancora in alto mare.
E’ uno stallo dal quale è possibile uscire?
La vedo difficile. Il rischio è quello di trovarsi con tre esecutivi, nessuno dei quali governa effettivamente. Questa è la situazione in questo momento, e per qualsiasi intervento sia politico sia militare tutto viene rinviato sine die. La cosa ancora più grave per l’Italia è che ha puntato tutto sulla creazione del governo di unità nazionale per avere un ruolo politico e militare.
Come ne esce il nostro Paese?
Non molto bene. Non dimentichiamoci che l’Italia avrebbe dovuto essere la madrina di questo governo, aiutandolo ad arrivare a Tripoli e garantendo la sicurezza ai suoi membri. In questo momento però il governo non è riconosciuto né ratificato da nessuno degli attori libici, ed è quindi anche molto difficile riuscire a insediarlo a Tripoli perché non ha nessun diritto legale a farlo. Quello di unità nazionale sembra quindi il più debole dei tre governi che in questo momento si contendono il potere.
La compagine che fa capo al generale Haftar è stata esclusa dal governo di unità nazionale. Perché questa scelta?
Quella di Haftar è una compagine divisiva per una serie di ragioni. Innanzitutto non piace alle milizie islamiste perché è l’acerrimo nemico degli islamisti stessi. Non piace ad altre componenti che non sono della Cirenaica perché ha la sua base di potere in questa regione. A molti altri non piace perché al suo interno ha molti generali e molti esponenti dell’ex regime di Gheddafi. Nel quartier generale di Haftar, molti alti ufficiali hanno ancora la divisa del vecchio esercito del Colonnello. Da molti inoltre è considerato una quinta colonna dell’Egitto.
Quindi è stato saggio estrometterlo?
No. Haftar è l’unico che dispone di un esercito efficace, e potrebbe essere quindi un alleato importante. L’Italia però ha scelto una strada diversa, che passa da Misurata e dal tentativo di comporre una serie di milizie che dovrebbero riunirsi intorno al governo di unità nazionale. Non esistendo però il governo, per il momento non esiste nemmeno l’unità delle milizie che dovrebbe garantirne la sicurezza.
Qual è la strategia dell’Isis in Libia?
L’Isis punta a fare delle proprie basi libiche l’epicentro di tutti quei volontari islamisti che arrivano dall’Africa. Si tratti di esponenti provenienti da Boko Haram in Nigeria e da Al-Shabaab in Somalia.
(Pietro Vernizzi)