Raid degli aerei Usa in Libia hanno preso di mira il covo di Noureddine Chouchane, ritenuto la mente dell’attentato del Bardo avvenuto l’anno scorso in Tunisia. L’aeronautica americana ha colpito un campo di addestramento dell’Isis a Sabrata, nell’Ovest del Paese. Oltre 40 le vittime dei bombardamenti. Per Margherita Boniver, ex sottosegretario per gli Affari esteri, questa vicenda è in qualche modo da ricollegarsi all’attentato in cui perse la vita John Christopher Stevens, ambasciatore americano in Libia ucciso a Bengasi l’11 settembre 2012, quando Hillary Clinton era segretario di Stato. “In piena campagna elettorale, con Hillary Clinton in corsa, si vuole fugare il sospetto di incompetenza per quanto riguarda quel truce episodio”, spiega la Boniver.



Quello degli Usa è un attacco spot o l’inizio di un’operazione di più vasta portata?

Sembrerebbe un raid random, nel senso che la comunità internazionale si sta interrogando su che cosa fare per la Libia ma non ha ancora una risposta. Non mi sembra però che ci sia alcuna traiettoria decisa dal punto di vista del diritto internazionale che abbia una qualche chance di successo. L’ultima buona notizia per la Libia è stato il vertice in Marocco a metà dell’anno scorso.



Quando partirà l’intervento occidentale in Libia?

Un intervento occidentale in Libia non è imminente. Molto dipende dalla possibilità che il governo di coalizione prenda il sopravvento sulle schermaglie in atto fra Tobruk e Tripoli. Una carta molto importante che può essere giocata è quella del generale Haftar, alleato dell’Egitto, uomo forte sotto il regime di Gheddafi, che sembra ancora in grado di sparigliare i giochi. Bisogna capire al più presto come la sua personalità può essere realisticamente messa in una posizione utile alla stabilità del Paese.

Perché si è deciso di escludere Haftar dal governo?



Personalmente ritengo che Haftar sia un partner importante. Evidentemente la sua esclusione dalla lunga e laboriosa gestazione sotto l’egida dell’Onu avrà avuto una sua logica di partenza, ma bisogna vedere se quella logica abbia ancora valore oggi. In Libia c’è un quadro istituzionale costantemente in evoluzione. Si dovrebbe essere così lungimiranti da fissare sulla carta i nomi di quanti possono rivoltare il destino della Libia come un calzino.

Che cosa dovrebbe fare l’Italia in questa situazione?

L’unica cosa sicura è che la presenza massiccia dell’Isis nella zona di Sirte rende un’azione internazionale ancora più necessaria e urgente. L’Italia, che su questo dossier è presente al 100 per cento, non scopre ancora le sue carte. Il ruolo che l’Italia si è giustamente auto-assegnato, quello di essere il partner più credibile della stabilizzazione della situazione in Libia, stenta però a decollare.

I raid Usa rischiano di delegittimare l’impegno dell’Italia a favore della formazione e della durata del governo di unità nazionale?

No, non credo che questo renda più complicata la formazione del governo di unità nazionale. Tutto ha ancora bisogno di essere fatto maturare, ed episodi isolati e random lasciano quindi il tempo che trovano.

 

Gli Usa finora si sono disinteressati della Libia. Perché adesso tornano a interessarsene?

Nel 2011 gli Usa hanno elaborato per la Libia la sciagurata teoria nota come “leading from behind”, cioè di guidare senza esporsi. Del resto gli americani non possono perdonare l’uccisione del loro ambasciatore Chris Stevens. In piena campagna elettorale, con Hillary Clinton in corsa, si vuole fugare il sospetto di incompetenza per quanto riguarda quel truce episodio.

 

La Clinton appunto era segretario di Stato quando l’ambasciatore fu ucciso. Questi raid servono alla sua campagna elettorale?

Non arriverei a dire questo. Quell’episodio però brucia non soltanto la coscienza dei diplomatici Usa e della stessa amministrazione Obama, ma è stata veramente una pagina nera della politica internazionale degli Stati Uniti. E’ stato un episodio molto grave, anche perché da quello che si è saputo dopo si poteva benissimo evitare il sacrificio di Stevens.

 

(Pietro Vernizzi)