E’ scontro in America dopo la morte del presidente della Corte Suprema, Antonin Scalia. La scomparsa del giudice conservatore ha sollevato un aspro dibattito tra Repubblicani e Democratici sul fatto che Obama debba scegliere o meno il successore di Scalia prima dello scadere del suo mandato. Secondo il partito di opposizione la Casa Bianca dovrebbe infatti lasciare il seggio vacante alla Corte Suprema finché il nuovo presidente si insedierà il prossimo gennaio. Ne abbiamo parlato con Paolo Carozza, direttore del Kellogg Institute for International Studies e Professor of Law e Concurrent Professor of Political Science all’Università di Notre Dame (Indiana, Usa).



Come legge lo scontro sul successore di Scalia dal punto di vista costituzionale e politico?

Veramente è più una questione politica che non di diritto costituzionale. La Costituzione è molto chiara, perché il presidente ha il diritto di nominare il suo successore. Il Senato quindi può scegliere se convalidare o meno la nomina. Il processo quindi dal punto di vista costituzionale è molto lineare. Questo non vuol dire però che sia scontato che il Senato approverà il candidato del presidente Obama. Come documentano anche altri precedenti, è possibile che il Senato non lo approvi. Sicuramente nelle prossime settimane Obama nominerà qualcuno e poi si vedrà.



Che cosa accadrebbe se il seggio di Scalia rimanesse vacante fino all’elezione del nuovo presidente?

Se le prossime elezioni saranno vinte da un repubblicano, la situazione all’interno della Corte Suprema cambierebbe drasticamente. Quasi sicuramente i Repubblicani conserveranno il controllo del Senato, che hanno attualmente, anche dopo le elezioni. Con un presidente repubblicano e un Senato repubblicano, riuscirebbero a nominare qualcuno che dal punto di vista ideologico è in linea con il partito. Avremmo così un successore che molto probabilmente sarebbe molto simile allo stesso Scalia.



E se vincessero i Democratici?

Se vincesse uno dei candidati democratici, tanto Hillary quanto Sanders nominerebbero qualcuno più o meno sulla stessa scia della scelta di Obama.

Qual è in questo momento la scommessa dei Repubblicani?

Il calcolo politico dei Repubblicani consiste nel fatto che non hanno nulla da perdere. Se anche a novembre perdessero la Casa Bianca si ritroverebbero nella stessa situazione in cui si ritrovano oggi. Se i Repubblicani invece vincono, hanno tantissimo da guadagnare perché il prossimo giudice della Corte Suprema occuperà una posizione veramente decisiva.

Il braccio di ferro sulla Corte Suprema è sintomo anche di uno scontro politico che negli ultimi anni è diventato più duro che in passato?

Assolutamente sì. E’ il sintomo di una malattia, cioè della divisione politica e ideologica di questo Paese che ha radici molto più profonde di quanto appaia. Non è soltanto l’indicazione di una situazione attuale, bensì di una divisione sempre più profonda. Sono sempre di meno i politici disposti a ricostruire un dialogo che riesca ad arrivare ai propri avversari. Per quanto riguarda inoltre l’elezione dei giudici della Corte Suprema, questo è il frutto di una serie di sviluppi che sono iniziati almeno 25 anni se non 30 anni fa.

 

Perché questa divisione politica finisce per scaricarsi sull’elezione del giudice della Corte Suprema?

Ormai è chiaro che la Corte Suprema degli Stati Uniti occupa una posizione politica e non soltanto giuridica su molti dei temi più scottanti e di difficile soluzione che riguardano l’etica sociale del Paese. Chi decide è la Corte Suprema, tutti riconoscono questo dato di fatto e quindi necessariamente non è più un organo con meri compiti tecnici e giuridici, bensì principalmente politici e morali. In quest’ottica in un certo senso uno quasi ha l’obbligo di cercare di esercitare un certo potere sul processo di selezione del nuovo giudice. Questo passaggio è infatti essenziale per cercare di arrivare ai risultati in cui uno crede, necessari per il bene del Paese e per il bene comune.

 

(Pietro Vernizzi)