Forse non è scorretto, ma è fin troppo facile ridurre la presa di posizione di Bill Gates pro-Fbi e versus Apple – nel caso San Bernardino – al classico colpo basso concorrenziale: che in America è sempre parte del gioco, anzi rassicura il libero mercato sulla propria identità.

Microsoft è affacciata sul Pacifico come la Silicon Valley, ma abita a Seattle: molto più a nord dei distretti hi-tech californiani che l’hanno anzi messa da tempo sotto pressione. E all’osservatore europeo – consapevolmente non vicino – piace scorgere rughe più scavate di storia statunitense – non solo industriale – nel volto del Chief Architect, che si spende pubblicamente per le ragioni dell’amministrazione di Washington, anzi dei G-men federali.



Nonostante una partnership da annali della storia tecnologica dell’umanità, (Gates ha ricordato Steve Jobs con accenti profondi poche settimane fa sulla Bbc), Mr Microsoft e Mr Apple – a cinque anni dalla morte di quest’ultimo – si stagliano sempre di più come i dioscuri di due Americhe (digitali) diverse.



Gates, figlio di un banchiere di radici europee, ha studiato ad Harvard: la cui storica disciplina d’insegnamento è l’esercizio del potere, del potere di Washington e New York sull’America; del potere americano nel mondo. Fino alla morte improvvisa di Antonin Scaìa, pochi giorni fa, sei dei nove justice della Corte Suprema statunitense, provenivano dalla School of Law di Harvard: compreso il chief justice in carica, John Roberts Jr. Nella facoltà di legge harvardiana si sono laureati e conosciuti Barack e Michelle Obama. Tutte le libertà fondamentali dal 1776 e tutto il resto, certo: ma anche la forma razionale della civiltà legale americana, quella degli Stati fondatori dell’Est.



La San Francisco di Jobs è invece sempre stata – e resta – the opposite of. Letteralmente: il punto d’arrivo finale per chiunque andava verso Ovest, poco importa se fuggiva dall’Est o inseguiva un suo sogno, comunque altrove, molto lontano. E oltre le spiagge californiane, davanti al Pacifico, non si poteva proseguire: bisognava fermarsi, mettersi a far qualcosa. Città per definizione antagonista, il baricentro metropolitano della Silicon Valley. Dove anche le tecnologie digitali sono germinate in chiave libertaria e contestativa, da tutte le virtualità e spiritualità del cultura new age. E Apple è stata la vera incarnazione di un’informatica “iper-democratica”: semplice e a basso costo, orizzontale e in rete, creativa e ludica. L’esatto contrario di quella che fino ancora agli anni 70 era l’informatica hard della costa orientale.

L’informatica di Ibm, ad Armonk, 40 miglia da Manhattan. L’informatica “verticale” dei grandi mono-oligopoli pubblici e privati, del “complesso militar-industriale”, di centinaia di cervelloni concentrati a costruire super-computer costosissimi. Wall Street e la Nasa, il Pentagono, le università della Ivy League, le grandi corporation del Midwest. Anche le banche-dati di Cia ed Fbi, certo. 

Come è assai probabile che il leggendario fondatore e Chief dei federali, John Edgar Hoover, avrebbe schedato Jobs come pericoloso sovversivo, come tanti franciscans beatnik. Ben più difficilmente Gates, vero wasp, sarebbe finito nel mirino della polizia federale. E la sua Microsoft non ha forse messo radici a Seattle, poco lontano dal quartier generale di Boeing, quella delle Fortezze volanti e dei Jumbo? Corporate America vera e solida, connessa con il big government, con la testa sulle spalle. Non quella dei fools di Cupertino. Che, giusto o sbagliato, vena ribelle o preoccupazioni di marketing, di collaborare con i gendarmi non ne hanno mai avuto troppa voglia. Soprattutto con i poliziotti mandati in California da “quelli di Washington”.

Sarà il classico errore dell’osservatore europeo, ma nel febbraio 2016 diventa nuovamente chiaro perché le strade di Bill & Steve si sono separate, anzi: sono partite da punti diversi per andare verso mete diverse. Dentro la stessa America, ma per molti versi digital divided.