Qualora le autorità libiche dovessero avanzare la richiesta, l’Italia sarebbe pronta per una missione militare di supporto in Libia con un contingente “limitato” — si parla di circa 3mila/5mila uomini — con il compito di addestrare le forze locali e sorvegliare siti sensibili. Questo, in sintesi, è quanto è emerso della riunione del Consiglio supremo di difesa dello scorso 25 febbraio. 



Si tratta di una presa di posizione che, a conti fatti, potrebbe far pensare che il governo italiano — nonostante si sia sempre espresso con certa cautela e un certo “senso di responsabilità” — avesse già attivato da qualche tempo la macchina bellica, seppure in sordina rispetto agli alleati, per non scontentare le opposizioni e far digerire l’intervento all’opinione pubblica. Tenendo conto di quanto emerso dal vertice, vanno però sottolineati alcuni limiti sulle modalità del possibile intervento, anche alla luce dello scenario locale.



Vale la pena, dunque, considerare la situazione sul terreno per far chiarezza sugli ipotetici rischi dell’azione italiana in Libia, partendo dalle più scontate considerazioni: centinaia di milizie armate; due governi; un governo unitario che, ad oggi, non si è ancora formato; la presenza di Isis accertata in alcune zone del paese e, infine, elemento su cui si è forse poco riflettuto, una popolazione di più di 6 milioni di abitanti di cui non si è mai preso in considerazione il parere.

Il problema più evidente è quello delle milizie: la Libia non è Tripoli e Tobruk, ma decine di tribù e di milizie armate, tra cui alcune organizzazioni terroristiche. Molti di questi gruppi sono ben radicati nel paese da molti anni, per lo meno dal 2011, quando, nel tentativo di rafforzare le non meglio identificate forze dei ribelli contro i lealisti gheddafiani, sono state armate e supportate centinaia di milizie che peraltro avevano già debitamente saccheggiato caserme ed arsenali del raìs. Da allora né il Consiglio nazionale di transizione, organo legittimato dalla comunità internazionale, né i governi che gli sono succeduti sono mai riusciti a disarmare e “smobilitare” i vari gruppi armati dai territori conquistati durante il conflitto. Anzi i miliziani, nel frattempo, oltre a continuare a combattere, hanno strutturato un proprio “sistema” fondato sul contrabbando, sul commercio illegale e, in taluni casi, sulla tratta di esseri umani. 



Si tratta di una situazione difficile da sradicare e che si è consolidata in tutto il paese. Basti pensare che la capitale Tripoli — probabilmente assieme alle aree limitrofe, “porzione” che spetterebbe all’Italia — conta circa 1,1 milioni di abitanti e, come fa notare un recente studio del Cesi, vive “in uno stato di anarchia in preda agli appetiti di diverse milizie armate in lotta tra loro”. 

Tanto basta per ricordarci che in Libia non esiste solo l’Isis, anche se solo di questo si parla in questi ultimi mesi, in taluni casi forse ampliandone la reale portata. Gli attori forti sono le milizie — comprese quelle jihadiste — che hanno fin qui dimostrato di esser molto più organizzate, armate e radicate nel terreno rispetto allo stato islamico. Non è un caso se, sovente, l’avanzata del califfato sia stata frenata proprio dalle milizie locali, come nel caso della città di Derna, in cui i guerriglieri dello stato islamico, già nel 2014, hanno trovato la dura opposizione del Consiglio dei mujahideen, composto, tra gli altri, dalla ben armata — e piuttosto ambigua — brigata dei martiri di Abu Salim. 

E’ evidente dunque che, senza un accordo con alcuni di questi gruppi, che probabilmente al momento non c’è o non è ancora adeguatamente forte, un’operazione sul terreno, fosse anche di solo addestramento delle milizie locali e messa in sicurezza di siti sensibili, sarebbe ad altissimo rischio.

Altro problema, in parte connesso al tema delle milizie, è quello della presenza di due governi — che controllano peraltro una parte dei gruppi armati — e del ruolo del possibile futuro governo unitario. Anche qualora venisse “concessa” da Tobruk una qualche legittimità alla lista del premier Serraj, il nuovo esecutivo, come ha ricordato  il gen. Carlo Jean, “potrebbe non avere né l’autorità né la forza necessaria per sostenere l’azione occidentale e per contrastare le milizie, soprattutto se deciderà di lottare anche contro la criminalità organizzata ormai strettamente collegata alle prime”. E’ evidente dunque come il supporto di un qualche governo libico sia una condizione indispensabile per legittimare un intervento esterno, ma non affatto sufficiente a garantire il controllo del territorio e un supporto concreto ai contingenti stranieri.

L’ultimo elemento di criticità riguarda la popolazione libica. Non dobbiamo infatti dimenticare che al di là del ruolo nevralgico che ricoprono sul terreno i miliziani, questi — al netto dei combattenti dello stato islamico — sono circa 200mila su una popolazione di 6,5 milioni di abitanti. Di questi ultimi si è parlato poco finora. Forse, però, prima di pensare a qualunque tipo di operazione sarebbe stato quantomeno sensato tenere in considerazione anche i libici e non immaginarli quali soggetti passivi e d’accordo tout court con ogni decisione esterna. Ora, siamo sicuri che un intervento straniero, per quanto non di “occupazione” come più volte ribadito dal ministro Pinotti, non venga percepito come un’ingerenza almeno da una parte della popolazione aumentando, magari, le fila di molte delle milizie di cui sopra?

In un contesto così delineato pensare che mettere in sicurezza siti strategici ed addestrare le milizie locali con un “manipolo di soldati” sarà un’operazione breve, indolore e “a 0 vittime” è pressoché un’utopia. Se l’Italia deciderà di entrare in un’operazione militare in Libia, dovrà affrontare uno scenario operativo estremamente complesso, frammentato e rischioso e i tempi potrebbero essere molto lunghi. Siamo preparati ad affrontare tutto questo?