Giulio Regeni, il 28enne scomparso al Cairo il 25 gennaio scorso, è stato trovato morto in un fosso lungo l’autostrada per Alessandria. Sul corpo ci sono segni di tortura, bruciature di sigaretta, ferite da coltello e indizi che fanno pensare a una morte lenta. A riferirlo è il procuratore egiziano all’Associated Press. Mentre per il direttore dell’Amministrazione generale delle indagini di Giza, “le indagini preliminari parlano di un incidente stradale” e smentiscono che il ragazzo “sia stato raggiunto da colpi di arma da fuoco o sia stato accoltellato”. Per Shahira Amin, ex vicedirettrice della tv pubblica egiziana Nile Tv e attualmente giornalista indipendente, “purtroppo la versione più attendibile è quella del procuratore. Nei giorni precedenti alla scomparsa di Regeni le forze dell’ordine egiziane hanno dato diversi segni di paranoia, arrivando ad arrestare uno studente americano la cui unica colpa era quella di studiare l’arabo ed esercitarsi nella conversazione in un bar”.
Che cosa ne pensa della morte di Giulio Regeni?
E’ una vicenda molto misteriosa e potrebbero esserci dietro anche dei delinquenti comuni. Dobbiamo dare alle autorità il tempo per fare le indagini. Sono profondamente dispiaciuta per la famiglia e per questa giovane vita stroncata. Non stiamo parlando di un visitatore di passaggio che era in Egitto per due o tre giorni, ma di una persona che amava il nostro Paese e che viveva insieme a noi.
Lei per quale pista propende?
Prima del 25 gennaio, anniversario della rivoluzione, c’erano molta paura e paranoia da parte delle forze dell’ordine. Gli agenti hanno compiuto centinaia di incursioni negli appartamenti del centro del Cairo, arrestando amministratori dei gruppi di Facebook e chiudendo diversi spazi culturali. A ciò si è aggiunto un grande sospetto nei confronti degli stranieri.
Come si è concretizzato questo sospetto?
Una settimana prima della scomparsa di Giulio Regeni, uno studente americano di arabo si è seduto in un bar del centro del Cairo e ha cercato di iniziare una conversazione con alcune persone del posto. La polizia è entrata nel bar, lo ha arrestato e lo ha espulso dal Paese, affermando che stava sobillando le proteste.
Regeni potrebbe anche essere stato rapito e ucciso dall’Isis?
Escludo che possano essere stati dei jihadisti. Non soltanto perché questi ultimi non fumano, come ha osservato la Bbc, ma anche perché non sono in grado di arrivare nel centro del Cairo e rapire qualcuno.
La procura ha parlato di torture mentre la polizia le ha escluse. Chi ha ragione?
Io credo al procuratore. Tutti i media hanno riportato che Regeni aveva dei segni di tortura su tutto quanto il corpo. C’è quindi una mancanza di trasparenza, e del resto non è la prima volta che si negano fatti rispetto ai quali c’è addirittura una prova video.
In che senso?
Mercoledì per esempio una donna è stata schiaffeggiata sul metrò da un poliziotto e l’azione è stata filmata da una telecamera. Eppure un funzionario del ministero dell’Interno è andato in tv e ha detto che il fatto non era mai avvenuto.
Come valuta questo atteggiamento delle autorità egiziane?
Questa tendenza a negare i fatti non fa altro che peggiorare le cose. Nel caso di Giulio Regeni ritengo però dovrà esserci trasparenza e il nostro governo sarà costretto a dire la verità. Sono profondamente addolorata per la sorte di questo ragazzo, ma il fatto che sia coinvolto il governo italiano costringerà le autorità egiziane ad andare in fondo a questa vicenda e a scoprire chi lo ha ucciso. I colpevoli devono essere portati di fronte alla giustizia ed essere chiamati a risponderne.
Lei ritiene che ci siano responsabilità anche da parte del governo egiziano?
No, ma da parte del governo dovrebbe esserci maggiore fermezza. Occorre mostrare una tolleranza zero nei confronti di certi comportamenti messi in atto dalla polizia. Io stessa ne ho fatto esperienza.
Personalmente?
Sì. Lo scorso giugno ho pubblicato un articolo in cui affermavo che la polizia deve essere chiamata a rispondere della sua brutalità, perché in Egitto c’è stata una rivoluzione contro questi metodi. Dopo la pubblicazione non soltanto il programma televisivo che conducevo è stato sospeso, ma sono stata anche processata con l’accusa di essere una minaccia per la sicurezza nazionale. La sentenza è attesa per sabato 6 febbraio, dopo essere stata rimandata di mese in mese per tenermi in uno stato di continua ansia. Il loro obiettivo è costringermi al silenzio perché non accettano critiche.
(Pietro Vernizzi)