Negli ultimi giorni sembra stringersi sempre di più il cerchio intorno alla Libia. Da un lato il processo per la formazione di un governo unitario stenta a decollare, dall’altra cresce la morsa dello stato islamico e dunque la premura per un’azione militare capace di arrestarne l’avanzata, azione difficilmente realizzabile senza un avallo, perlomeno formale, da parte del governo libico che, però, al momento non esiste. Insomma, un cane che si morde la coda. 



Le speranze sembrano ancora riposte in Fayez al Serraj: a breve il capo dell’esecutivo designato dovrebbe presentare una nuova lista dei ministri al parlamento di Tobruk che, giova ricordalo, il 25 gennaio scorso ha categoricamente bocciato i 32 nomi proposti dal debole premier, probabilmente a causa dell’esclusione dalla compagine del generale Haftar, uomo forte di Tobruk e ago della bilancia di ogni possibile futura trattativa. Nel frattempo però lo stato islamico si rafforza nel paese. Dopo la lunga lista di attentati degli ultimi mesi — dalla caserma di Zliten ai pozzi petroliferi di Ras Lanuf — il consolidamento di Isis sembra confermato anche dall’arrivo in suolo libico di alcuni esponenti di spicco del califfato. Secondo quanto riferito da Ismail Shukri, capo dell’intelligence militare di Misurata — e riportato in vari quotidiani internazionali — alcuni importanti leader dello stato islamico si troverebbero a Sirte e tra questi anche Abu Ali al Anbari, ex generale di Saddam Hussein e braccio destro di al Baghdadi. Sempre la stessa fonte parla di continui arrivi di “nuova manovalanza” oltre che dalle classiche mete come Tunisia ed Algeria, anche da Mali, Ciad, Sudan, e da molti di quei paesi poveri a sud della Libia da cui provengono i migranti che tentano di imbarcarsi per la traversata verso le coste europee. 



La pressione per un’azione militare imminente, dunque, è forte. 

Dinanzi a questo scenario, come già sottolineato da molti analisti, la domanda “non è più se, ma quando e soprattutto come“. Il primo e fondamentale punto è proprio il “quando”. Detta in altri termini, sarà possibile aspettare la formazione di un nuovo governo capace di adire formalmente la coalizione internazionale? Si tratta di una questione non di poco conto poiché, qualora i negoziati per il governo unitario dovessero di nuovo fallire, potrebbe non essere poi così remota l’ipotesi di un intervento unilaterale senza una “chiamata ufficiale” da parte del possibile, futuro, governo libico.



Le conseguenze in questo caso potrebbero essere gravi. In primo luogo l’Onu verrebbe meno alle sue intenzioni, e non è una mera questione giuridica. La risoluzione 2259 dello scorso dicembre stabilisce, infatti, che qualsiasi forma di assistenza debba passare per l’approvazione del nuovo governo libico.

E’ evidente che l’Onu ha riposto un po’ troppa fiducia in Serraj, fatto sta che se ora agisse senza un avallo formale da parte libica perderebbe credibilità e lo stesso Serraj apparirebbe — ancor di più — un inutile orpello senza alcuna legittimità, rafforzando le molte forze centrifughe che mai lo hanno legittimato, ma anche allontanando molti di coloro che fin qui lo hanno sostenuto, con la conseguente ulteriore radicalizzazione e frammentazione del già labilissimo quadro politico. 

Altra questione è poi quella del “come”. In altre parole, in cosa potrebbe consistere l’intervento esterno? Se un obiettivo appare chiaro a tutti — contenere il califfato — resta una certa voluta fumosità sul resto. Si parla a gran voce della necessità di “supportare un processo politico in Libia”, ma poco fin qui è stato detto sugli strumenti, le strategie, gli impegni dei singoli attori e i costi per raggiungere questo nobile scopo. Il che farebbe presupporre l’assenza di strategie comuni o, più semplicemente, delle remore da parte di qualche attore nel metterle in pratica.

I libici chiedono “assistenza” che, tradotto, vorrebbe dire forze di addestramento, rifornimenti di armi, supporto alla messa in sicurezza di alcuni luoghi sensibili — in primis la capitale, Tripoli, in cui dovrebbe reinsediarsi il nuovo governo — e, magari, appoggio aereo. Lo stesso Serraj, leader peraltro generato dall’Onu (e non dai libici), ha più volte ribadito questo punto. Un’azione così strutturata potrebbe vedere un importante ruolo dell’Italia, unico paese che, per motivi geografici, storici ed economici, sarebbe in grado di intavolare un dialogo con alcune delle fazioni libiche, grazie anche all’impegno delle proprie intelligence che da anni lavorano sul terreno. In ogni caso una tale azione sarebbe possibile solo con il supporto di un governo legittimo e, dunque, legandoci al discorso del “quando”, sarebbe necessario attenderne la formazione. 

In caso contrario è plausibile ipotizzare un’azione più circoscritta e limitata, almeno in un primo momento, a raid aerei mirati sulle postazioni dello stato islamico. Senza il supporto di un’azione sul terreno da parte di forze locali, sotto l’egida di un governo nazionale, tale intervento, però, potrebbe essere poco efficace. Ma al momento, come già ricordato, questo governo non esiste. Non solo, anche supponendo che con un intervento “monco” si riuscisse a sradicare lo stato islamico da alcune zone del paese, senza un contemporaneo lavoro di dialogo politico tra i vari gruppi di potere locali, chi ne prenderebbe il posto? Magari alcune delle mille milizie che pullulano nel mosaico libico? Il rischio sarebbe quello di tornare allo Stato fallito del dopo Gheddafi in mano a gruppi armati e bande non meglio identificate, con la sola differenza che Isis non sarebbe più — forse — una delle tante sigle presenti.  

In un contesto così delineato, poi, il ruolo dell’Italia sarebbe del tutto marginale. Il premier Renzi — nonostante le indiscrezioni trapelate su alcuni quotidiani nazionali riguardo alla richiesta americana di schierare caccia Tornado e reparti speciali “di piccole dimensioni, ma di forte impatto operativo” —  appare fermo nella sua linea non interventista che non si spingerebbe oltre la formazione e l’addestramento delle forze di polizia locali e la protezione di siti sensibili. Da un lato dunque gli Stati Uniti spingono per un impegno diretto, dall’altro il premier “cincischia”, trincerandosi dietro la necessità di attendere la formazione di un governo libico, mal celando, così, l’assenza di consenso interno all’azione militare da parte di alcuni partiti dell’opposizione. Resta ora da capire se e come il governo riuscirà ad uscire da quest’impasse. In altre parole, tocca ora al premier e ai “suoi” ministri decidere se aspirare ad avere davvero un ruolo guida, oppure continuare a mantenere una posizione oramai anacronistica fingendo di non sentire il frastuono delle armi di alcuni “amici” della coalizione e sacrificando sull’altare della realpolitik dei nostri presunti alleati anni di lavoro sul terreno.