Clinton, Trump e il nulla, o poco più. C’è un principio elettorale ben noto: un candidato che non vince nel suo Stato fa bene ad andarsene a casa. Non è né scritto, né vincolante, ma è una questione di buon senso, e per quanto il buon senso in politica scarseggi, questo principio regge da lungo tempo. La questione è che vincere il proprio Stato non basta, e qui quelli che sembrano capaci di vincere (davvero) un cospicuo numero di altri Stati sono solo Hillary Clinton e Donald Trump.
Sono le nove di sera, e i seggi elettorali dei 13 Stati in ballo vanno via via chiudendosi, ma il messaggio del Super Tuesday, la giornata più pirotecnica di tutte le primarie presidenziali, sembra chiaro. Dalla punta estrema dell’Alaska, fino al profondo sud di Georgia e Alabama, oggi gli americani sbozzano a colpi di scure il profilo dei due futuri aspiranti presidente. In mezzo a tutta la baraonda di dati e proiezioni mi ritrovo ipnotizzato dalla Clinton che celebra con tempismo discutibile il suo successo dalla Florida (tutti i candidati sono laggiù, già in pista per la prossima tornata elettorale). Ipnotizzato dalla sua pressoché totale assenza di sensibilità umana e dalla sua vuota retorica.
Non agitatevi, l’altra sera mi ha ipnotizzato pure Trump. Donald ti travolge con il suo faceto e certamente pericoloso “nulla”. Ma cerchiamo di capire un attimo quali scenari si aprono dopo il voto di questa sera. Le cose sono molto diverse negli universi dei due partiti. Con i due frontrunners subito avanti, Bernie Sanders e Ted Cruz stanno lottando per portare a casa qualcos’altro oltre al loro Stato. Bernie si prende il suo Vermont, ma ci aggiunge Oklahoma, Colorado e Minnesota. Ted Cruz il suo Texas e anche l’Oklahoma. Ma il significato della conquista di altre terre ha pesi molto diversi per i due.
Per il candidato democratico mettersi in tasca ben 4 elettorati ha un enorme valore “morale”, ma un incerto spessore di sostanza. L’establishment democratico ha deciso, i tentacoli organizzativi hanno pescato a fondo nell’elettorato nero e in quello metropolitano, consegnandolo nelle mani “fidate” di Hillary. Sanders “piace”, ispira molta più fiducia della Clinton (tutti i sondaggi parlano chiaro), ma semplicemente non ce la può fare. Così almeno vuole il partito. I democratici escono dal Super Tuesday moralmente ed emotivamente turbati, ma politicamente saldi.
All’alba di mezzanotte il sorriso di Hillary si trasforma in una mezza smorfia. È certamente lei a comandare le danze, ma non come avrebbe voluto. Sono i repubblicani a ritrovarsi completamente allo sbando. Rubio piazza un colpo di coda e si attacca con le unghie e con i denti al Minnesota nel tentativo di continuare a legittimare la sua presenza nel cuore di una battaglia che in verità sembra perduta. Cruz, che rispetto a Sanders ha raccolto ben poco, si erge a paladino dell’unità del partito, a suo avviso l’unica vera alternativa a Trump. Solo che Cruz piace solo a se stesso…
In questa lotta fratricida (si fa per dire) il partito repubblicano sta perdendo quel che gli era rimasto di identità. Nessuno vuole mollare, nessuno sembra capire la profondità del bisogno di significato che tutto questo bailamme conclama. E nessuno sa come fermare Trump. Ci si barcamena alla ricerca della strategia vincente: Hillary che comincia a dire le cose che dice Bernie, Bernie che si sente Davide contro Golia, Trump sempre più tronfio, Rubio che offende i rivali come fa Trump, Cruz che vorrebbe ispirare fiducia.
Clinton, Trump e poco più.