Gli attentati di Bruxelles, alla pari di quelli avvenuti a Parigi, ci impongono delle serie riflessioni sia sulla natura degli attori che stanno attaccando l’Europa, sia sui loro scopi. Ma, soprattutto, ci impongono una riflessione sul tipo di risposta che i governi europei devono dare di fronte alla minaccia jihadista. C’è chi dice che, se volessimo chiamare le cose con il loro nome, dovremmo dire che gli attacchi a Bruxelles sono “guerra” e non “terrorismo”. In realtà, queste stesse affermazioni indicano che il terrorismo sta già ottenendo i primi risultati. Proprio perché le parole sono importanti, soprattutto quando possono avere delle conseguenze molto serie per gli effetti che possono creare, è doveroso riflettere sul fatto che, se si ammettesse di “essere in guerra”, allora dovrebbe essere chiara anche l’identità del nostro nemico. E si dovrebbe contro-attaccare. Qui sorgono i primi problemi: chi è il nemico? 



Da un lato, potremmo guardare al nemico che è fuori dai nostri confini (il cosiddetto stato islamico, ma anche al-Qaeda e le sue organizzazioni sorelle) in Iraq, Siria, Algeria, Mali, eccetera. Eppure in questi anni ci siamo concentrati (l’Europa a vario titolo e gli Stati Uniti) quasi esclusivamente sul nemico esterno, con le guerre in Afghanistan e Iraq, i bombardamenti “mirati” in Libia, Somalia, Pakistan, e il risultato è stata un’escalation di violenza jihadista su scala globale senza precedenti. 



Ciò vuol dire che, evidentemente, o si è fatta una guerra contro il “nemico sbagliato”, oppure si è contribuito a rafforzare quel nemico tramite azioni poco efficaci e controproducenti. In questo caso la domanda che dovremmo porci è: cosa è andato storto nella guerra al terrore lanciata quindici anni fa, all’indomani dell’11 settembre? Probabilmente la risposta va cercata negli interessi di potenze regionali: Arabia Saudita, Iran, Turchia, Pakistan, che hanno contribuito non poco a confondere il piano della guerra ideologica con quello della guerra tra le nazioni. Nulla di diverso da quello che accadeva anni fa nel confronto tra comunisti e mondo libero e gli interessi sottostanti di Unione Sovietica, Cina, Stati Uniti, eccetera.



Dall’altro lato, potremmo invece concentrarci sul “nemico interno”, dal momento che, da Parigi a Bruxelles, gli attentatori sembrano essere persone che vivono nelle nostre città, che sono nate e cresciute in Europa e, in parte, hanno addirittura goduto di qualche tipo di protezione in alcuni ambienti delle nostre capitali. 

A questo punto, ragionando per assurdo e richiamando un clima di guerra, cosa dovrebbero fare le autorità europee? È evidente, infatti, che non si possono colpire intere comunità musulmane che vivono in Europa, solo per essere certi di colpire anche gli individui responsabili degli atti di terrorismo. A meno che non si voglia criminalizzare un’intera collettività come responsabile per gli atti di alcune persone che ne fanno parte; ma questo, come dimostrato dalla storia in vari contesti, non fa altro che contribuire a radicalizzare le posizioni.  

Dunque, la risposta potrebbe essere: non siamo in guerra, ma siamo al centro di una campagna di terrore, perpetrata da attori che pur usano tattiche di guerra. Gli obiettivi invece dei terroristi sono evidentemente multi-livello. Vi è la volontà chiara di colpire l’Occidente e l’Europa, mandandole un messaggio esplicito: nonostante gli arresti della settimana scorsa a Bruxelles, siamo ancora in grado di colpire. Da non sottovalutare, però, quello che probabilmente è l’obiettivo principale del terrorismo, di qualunque matrice esso sia: creare un clima di terrore, appunto, tale da far scatenare una reazione altrettanto violenta. Questa è funzionale ad alimentare la retorica dell’oppresso contro l’oppressore, del “ci stanno colpendo tutti, indiscriminatamente”, e creare quindi un clima di odio nei confronti del nemico che si vuole colpire (in questo caso, a vari livelli, i governi europei). 

Se si scatenasse questo circolo vizioso, il gioco del terrorismo sarebbe vincente. Non è sicuramente facile, e richiede uno sforzo molto più grande, ma il modo migliore e il più efficace per combattere il terrorismo è proprio quello di isolare le cellule radicali dal loro contesto, non di colpire quello stesso contesto indiscriminatamente. 

Allo stesso modo, la reazione istintiva della chiusura di ogni paese in se stesso, del blocco delle frontiere, della sospensione di Schengen, potrebbe essere poco o per nulla efficace, oltre a indebolire l’Europa stessa. Salah Abdeslam, prima di essere arrestato, è stato 4 mesi nello stesso quartiere di Bruxelles. Coloro che vengono reclutati come foreign fighters dall’Europa, in molti casi, vengono reclutati in rete. Ha senso parlare di chiusura delle frontiere nell’epoca del “reclutamento 3.0”, che va oltre le barriere materiali? Sicuramente è una misura d’emergenza che va presa in determinati momenti, ma non sarà questa misura a fermare il terrorismo che sta colpendo l’Europa dal suo interno.

Papa Francesco ha parlato di una guerra mondiale a pezzi. Uno degli elementi è l’ideologia che prende il nome di Dio in ostaggio per una guerra di potere. L’altro sono gli interessi nazionali. Il terzo è la partita a scacchi tra le grandi potenze. Da ultimo ma non meno importante, il vuoto di identità di una generazione che è diventata manovrabile ai fini di una partita ben più complessa, come accadde negli anni 70. Ieri al grido “Rivoluzione”. Oggi “Allah u’akbar”.

Non faremo giustizia se non distingueremo il grano dal loglio. E per farlo dobbiamo caricare sulle spalle delle nostre decisioni la fatica di giudizi che tengano conto di tutto. 31mila donne siriane nei territori controllati da Isis sono incinte. Molti sono figli dei foreign fighters. È’ un dramma che ci accompagnerà per più di una generazione. 

Un proverbio arabo dice “la paura è come un cane: se fuggi ti morde”. Prepariamoci a non avere paura.