Ciò che oggi accade in Libia era prevedibile sol leggendo quello che rimarrà uno straordinario documento storico su ciò che sta dietro alla disgregazione dell’Occidente: la lunghissima intervista concessa da Barack Obama a Jeffrey Goldberg su The Atlantic nell’aprile 2016 e significativamente intitolata “The Obama Doctrine”. In essa il presidente degli Usa chiarisce quale sia la posizione sua e del suo Desk Office in merito al ruolo che gli stessi Usa devono svolgere nel mondo. È una sorta di ritirata strategica possibile grazie ad alleanze regionali su scala planetaria che vedono gli Usa affidare volta a volta per ciascheduna di codeste regioni a una nazione o a un gruppo di nazioni un ruolo di leadership di secondo grado (il primo sempre deve appartenere agli Usa), che sia dotato di mezzi di contenimento o di attacco verso potenze nazionali o ideologico-tribali (vedi Medio Oriente con la distruzione della Siria, della Libia e dell’Iraq). A tali subleadership nazionali è affidato il compito di controllo e di intervento sulle aree di crisi.
Per esempio, in Asia il dominio terracqueo dal Mar Cinese al Mar Indiano impone il contenimento militare e politico della Cina e questo ruolo vassallatico è stato affidato tanto al Giappone quanto al Vietnam, come dimostrano sia i lavori per la Trans-Pacific Partnership, sia la riforma costituzionale in Giappone, permettendo a codesta nazione di riarmarsi, sia la straordinaria pacificazione col Vietnam, potenza regionale storicamente nemica della Cina comunista.
La stessa cosa gli Stati Uniti tentano di realizzare in Medio Oriente. L’hanno fatto anche durante la Guerra fredda, dopo la crisi di Suez che spostò tutto l’asse del panarabismo nasseriano dalle braccia russe-sovietiche alle loro, grazie all’alleanza strategica coi sauditi e il wahhabismo. Allora come oggi la Siria rifiutò di abbandonare l’abbraccio russo-sovietico e quel filo rosso si è di nuovo sgomitolato oggi, come dimostra l’intervento russo in appoggio ad Assad e contro lo storico antemurale turco da secoli nemico acerrimo e imperituro della Russia.
Il problema è che questa strategia per autosostenersi ha bisogno di una visione che addirittura lo stesso Obama possiede ma che sfugge interamente all’Europa, soprattutto a quella unificata sotto il tallone dell’euro. Come dimostra la storia di Israele dalla dichiarazione di Balfour del ’17 sino a oggi, il Medio Oriente è impensabile senza un ruolo politico delle potenze europee, e, dopo la crisi di Suez, senza la connessione di codesto ruolo politico con le mutevoli strategie statunitensi. Se ciò che capita in Medio Oriente dalla seconda metà dell’Ottocento si riverbera in Centrafrica, e quindi sul destino di chi dominerà il Congo, che è il punto archetipale del dominio del mondo prossimo e futuro, tanto più dalla stessa età i destini dell’Europa e del Medio Oriente sono indissolubilmente intrecciati.
Il crollo degli imperi ha drammaticamente complicato questi intrecci. Il crollo dell’Impero ottomano spaccò in due il mondo arabo, e il crollo dell’impero inglese, dopo Suez nel ’56, complicò ulteriormente le cose perché rese potenzialmente instabili aree essenziali come la Libia, la Siria e il Libano, dove il dominio italiano non resse dinanzi al conflitto con la Francia e l’Inghilterra, protese anch’esse a dominare quel deserto inzuppato nel petrolio, e non resse né nella grande, né nella piccola Siria, ossia né in Siria né in Libano, dove i francesi non riuscirono mai a normalizzare attraverso le armate cristiano-maronite quel mosaico di nazionalità e neppure la Siria trovò mai un equilibrio di lungo periodo. Nel gioco di potere asimmetrico tra Russia, Francia e Iran, come emerse chiaramente dopo il crollo dello Scià, la faglia sciita e l’emersione dell’Isis finanziato dai sauditi e dal Qatar.
Il fatto che quello che è stato nominato dall’Onu nuovo presidente della Libia, Fayez al-Sarraj, appena giunto su quelle sponde debba rifugiarsi nella base navale di Abu Sittah per sfuggire alla sua stessa eliminazione fisica impone una riflessione che intellettualmente deve essere spregiudicata, lasciando alla diplomazia di fare il suo corso. Dinanzi alla rivolta delle tribù tripolitane contro questo personaggio che è appena stato ricevuto in Italia con tutti gli onori non ci si può non porre la domanda su chi abbia alimentato tale rivolta e l’abbia così ben guidata con straordinaria abilità strategica giungendo sino a occupare le centrali radiotelevisive, impedendo al neopresidente di aver qualsivoglia rapporto appunto con le 150 tribù.
E allora viene in mente quello che Obama ha detto in quella famosa intervista concessa a The Atlantic, allorquando ha definito la Francia e il Regno Unito “nazioni scroccone” proprio in merito al ruolo svolto da esse nella crisi libica del 2011, provocando la morte e la caduta di Gheddafi e l’attuale situazione di caos. Il punto essenziale è questo: già nel 2011, come oggi, la Francia e l’Inghilterra vogliono impedire l’emersione della leadership in seconda istanza dell’Italia, che appunto nel caso libico è stata individuata dagli Usa come potenza egemone a medio raggio per ristabilire l’ordine in un punto strategico. Il povero neopresidente libico ne ha fatto le spese.
Orbene: il problema ora è che l’Italia non paghi un prezzo tremendo per questa divisione prodottasi nel seno stesso all’Europa e quindi nel seno stesso di quel rapporto transatlantico che non può non unire, pena la disgregazione dell’Occidente, l’Europa agli Usa. Naturalmente non voglio trascurare le conseguenze sui flussi migratori che questo fallimento della strategia Usa avrà. La Libia diventerà un punto di partenza per decine di migliaia di africani dal Ciad, dalla Somalia, dallo Yemen, e di lì anche per le decine di migliaia di migranti dall’Hearthland e questo anche perché sul tema migratorio l’Europa si è divisa nei fatti, grazie all’accordo a senso unico tra Germania, stati balcanici e Turchia, a riprova che la storia non è acqua, perché oggi su questo tema si ripropongono le stesse alleanze della prima guerra mondiale: la Turchia con la Germania, le nascenti e sempre incompiute statualità arabe con il Regno Unito e la Francia. L’Italia era la parente povera, o come diceva Antonio Labriola, un imperialismo di secondo grado, che produsse poi la rivolta senussita contro le armate del generale Graziani.
È in questa luce che va letto il caso libico oggi. L’unico modo di volgere questa tragedia in un verso meno grave è quello di coordinare strettamente l’azione italiana con la strategia degli Usa e, soprattutto, con il blocco più potente dell’area, ossia quello militare egiziano. Esso è proteso alla conquista della Cirenaica perché vuole difendere il Sinai e quindi anche Israele. L’Italia deve continuare a parlare e lavorare con l’Egitto. Pena una tragedia di incalcolabili dimensioni. Se farà ciò, il sangue di un povero ragazzo animato dalla giustizia sociale e dall’amore per la ricerca scientifica, non sarà stato sparso invano.