Un aspetto particolare dell’attuale dibattito nelle primarie americane è il ruolo non proprio di primo piano riservato alla politica estera, malgrado la gravità della situazione internazionale e la minaccia di un conflitto di ampie dimensioni. Un’analisi interessante in proposito è apparsa su The New Yorker a firma Benjamin Wallace-Wells, dove si sottolinea come le campagne dei due candidati “nuovi”, il repubblicano Donald Trump e il democratico (socialista) Bernie Sanders, si stiano rivolgendo soprattutto a chi non va a votare. Nelle precedenti tre elezioni presidenziali costoro hanno rappresentato circa il 45% degli aventi diritto, con percentuali più alte tra i giovani, tra chi ha istruzione e reddito più bassi, tra i non bianchi e tra i cattolici. E’ ragionevole pensare che per queste fasce di possibili elettori siano molto più interessanti gli aspetti interni, a cominciare da quelli economici, piuttosto che la politica estera. Inoltre, è da tener presente la sempre maggiore rilevanza di movimenti di base al di fuori dei partiti tradizionali, quali Occupy, Black Lives Matter o il Tea Party.
Tuttavia, gli Stati Uniti rimangono una superpotenza la cui politica estera condiziona il resto del mondo, anche se la sua presunta missione di “guardiana del mondo” comincia a essere messa in discussione dagli stessi americani. Questo sembra essere uno degli aspetti di differenziazione tra la “colomba” Sanders, in favore di un intervento “morbido” nella politica internazionale, e i due “falchi”, Trump, bellicoso ma tendenzialmente isolazionista, e Hillary Clinton, decisamente interventista. A differenza di Obama e di Sanders, la Clinton fu a favore dell’invasione dell’Iraq, ha appoggiato l’attacco alla Libia e continua a mantenere posizioni simili.
Questa situazione lascia mano libera a Obama, malgrado si stia avviando alla fine del mandato, e le sue decisioni condizioneranno pesantemente il suo successore. Come scritto altre volte, è difficile esprimere un parere positivo sulla politica estera di Obama, anche se non può essergli addossata tutta la responsabilità dell’attuale generale instabilità. Resta il fatto che, alla sua prima elezione otto anni fa, gli Usa erano coinvolti principalmente nella guerra in Afghanistan e Iraq; ora, alla drammatica situazione di questi due Paesi si è aggiunto il caos in Siria e in Libia, dove Obama ha responsabilità dirette.
In quest’ultimo anno, Obama ha realizzato due accordi importanti, anche se ancora in via di realizzazione: il trattato sul nucleare con l’Iran e la ripresa dei rapporti con Cuba. Su quest’ultimo accordo vi sono state reazioni negative da parte dei repubblicani e, soprattutto, tra i molti esuli cubani rifugiatisi a suo tempo negli Stati Uniti. Il trattato con l’Iran sembra non essere gradito alla Clinton ed è decisamente avversato da Trump, per il quale fanno paradossalmente il tifo gli estremisti iraniani, con la speranza che la sua elezione porti alla cancellazione dell’accordo con il Grande Satana.
Entrambi gli accordi sono stati possibili per l’appoggio esplicito, nel caso dell’Iran, o il consenso tacito, nel caso di Cuba, di Putin, il che rende ancor più incomprensibile la politica ostile di Obama verso la Russia. Il continuo aumentare della pressione cinese in Asia, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale, dovrebbe piuttosto indurre a una collaborazione con Mosca, per impedire una sua alleanza con Pechino. La Russia ha con l’Europa interessi molto più consistenti che con la Cina e la rottura imposta dagli Usa comincia a essere contestata, anche perché i costi economici ricadono sui Paesi europei.
Non si tratta di accettare acriticamente le politiche autoritarie di Putin, ma è difficile negare che l’intervento russo in Siria abbia decisamente contribuito a rendere molto più pesante la situazione per l’Isis e gli altri jihadisti. Lo schema di alleanze di Mosca nella regione si è dimostrato consistente, a differenza di quello occidentale basato su Arabia Saudita e Turchia. O su Stati noti per il loro appoggio all’estremismo islamico come il Qatar, ringraziato tuttavia caldamente qualche giorno fa dal segretario di Stato John Kerry per ospitare le truppe americane e per i “significativi sforzi” nella lotta contro il terrorismo. Dopo qualche giorno, il Pentagono ha annunciato l’arrivo di bombardieri strategici B52 in Qatar per combattere l’Isis. Non si tratta di una novità, perché i B52 rimpiazzano i meno vecchi B1 Lancer, particolarmente adatti al sostegno delle truppe a terra, ma ritirati un paio di mesi fa. Qualche osservatore ha visto in questa sostituzione un avvertimento alla Russia, dato che i B52 possono portare testate nucleari.
Su un altro fronte, anche l’intervento in Ucraina si sta rivelando fallimentare, con enormi costi per la popolazione di quel Paese, che ha dovuto anche subire lo schiaffo del referendum olandese contrario alla sua associazione all’Ue.
In giro per il mondo sono numerosi gli incendi, o i focolai pronti a prendere fuoco, si pensi solo a Boko Haram, agli Shabaab in Somalia, alla guerra nello Yemen, o al non risolto conflitto tra armeni e azeri, per non parlare della incancrenita questione palestinese. Sarebbe essenziale capire quali programmi a tal proposito hanno i contendenti alla carica massima dello Stato che, piaccia o no, rimane ancora protagonista sulla scena internazionale.