C’è un momento, nel primo atto dell’opera Carmen di Georges Bizet, in cui Don José e Carmen cominciano a prendere la misura l’uno dell’altra: l’ufficiale intima a Carmen di non parlare, e la donna ribatte (nel libretto tratto dalla novella di Prosper Mérimée): “Io non parlo, io canto per me stessa!/ E penso, perché pensare non è proibito!”. 



Ma che c’entrano le primarie dello stato di New York — e del suo cuore decentrato, New York City — con la Carmen? C’entrano perché le primarie, come ogni altro fenomeno politico analogo (ma specialmente quelle americane, e particolarmente queste di New York) ripropongono il problema della libertà di pensiero e di espressione; non tanto per ciò che concerne i loro protagonisti, quanto per quel che riguarda noi, che ci parliamo e ragioniamo sopra.



La maggior parte dei paesi del mondo non ha il lusso di preoccuparsi della libertà di pensiero in quanto ne ha già abbastanza di fare attenzione alle pericolose conseguenze della libertà di parola. Invece i paesi avanzati dell’Occidente — che hanno da tempo conquistato una relativa libertà di parola — hanno imparato a limitarla, interiorizzando una sorte di censura preventiva sui pensieri (Ecco perché “relativa libertà”). Nei paesi cosiddetti avanzati il dominio poliziesco non è più quello che esercita un controllo esplicito e brutale sui media e perfino sulle conversazioni private; si tratta invece di un apparato speciale e informale, che esercita un controllo sottile, non-violento (ma sempre di controllo si tratta) — e che potremmo chiamare la Ppu, ovvero la Polizia del Pensiero Unico (è ora di collocare definitivamente a riposo il concetto ipocrita e contraddittorio di “correttezza politica”).  



La Ppu ha ormai ottenuto, in Europa e in America, il successo delle sue predecessore e sorelle nei regimi totalitari — il successo preconizzato da George Orwell nel suo mai invecchiato romanzo, 1984: la “vittima”, cioè, è diventata il suo stesso “carnefice”. Il controllo del pensiero non ha bisogno di procedimenti magici: è il cittadino che ha imparato, senza bisogno di esplicite sanzioni esterne, a reprimere il suo — per così dire — subconscio sociale; non solo nelle pubbliche esternazioni, ma (come detto) anche nelle più intime conversazioni.  

Ora, la città di New York è sempre stata un corpo alieno rispetto al resto del paese: cominciando dal suo stesso, vasto stato rurale che si estende fino ai confini del Canada (ecco perché ho parlato di cuore decentrato). Una volta, New York vibrava di una libertà espressiva a cui si guardava, oltre Hudson, con un misto di fascinazione e di ripulsa. New York infatti non è mai stata troppo “simpatica” agli altri americani. Ma dopo l’Undici Settembre c’è stato un irrigidimento dell’espressione, con implicito ampliamento dei poteri della Ppu. 

E’ stato subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle che un portavoce delle sfere governative si è permesso di dire che “D’ora in avanti, bisognerà stare attenti a come si parla”; e pochi (tra quei pochi, il poeta afro-americano Amiri Baraka) hanno avuto il coraggio di ribellarsi. Ecco, anche a New York si è cominciato a stare “più attenti”, con l’ironica conseguenza (come di solito accade in simili casi) che l’atmosfera espressiva della città è peggiorata, senza che per questo il resto del paese si sia sentito particolarmente rassicurato rispetto a New York.

Tutte queste primarie sono un’ennesima dimostrazione (se mai ve ne fosse stato bisogno) che la classe politica americana non è superiore a quella europea, e che il tono del dibattito politico non è molto diverso. Si può anche dire dunque che, una volta superate le illusioni statunitensi di eccezionalismo, tutto il mondo è paese; e che, nella situazione attuale,  c’è poco da ridere. Eppure ogni tanto bisogna ridere, o meglio sorridere, piaccia o no alla Ppu. E’ tutt’altro che inutile allora coltivare un pensiero libero e liberamente associativo, un po’ irriverente, che procede a briglia sciolta; un pensiero che interroga (ripeto) il subconscio della società, il pensiero di quelli che sono i “parenti poveri” nell’illustre famiglia dei leader della politica e dei media.

Questi parenti poveri sono i poeti, i comici, i vignettisti, i pochi saggisti e pubblicisti indipendenti; e più in generale si tratta del modesto pensiero di quelli che muovendosi sotto il radar di internet, non disdegnano — nel mondo delle conversazioni in famiglia, tra amici, tra colleghi — di fare delle battute; diciamo, i nipotini di Oscar Wilde. Anche se la Ppu è sempre in ascolto, e pronta con la sua censura morbida, la censura col bavaglio profumato: “battute di dubbio gusto”, “satira non proprio raffinata”, e così via scoraggiando.

Penso per esempio alla battuta che, in tempi non sospetti — Trump non era ancora apparso all’orizzonte — una delle editorialiste abituali del New York Times fece a proposito dei due grandi partiti americani: i Democratici (scrisse) sono insopportabili; e i Repubblicani sono impresentabili. Allora, ricordo, quella battuta mi irritò — la trovai “di dubbio gusto” — perché a quei tempi nutrivo ancora illusioni sopra la qualità del discorso politico, soprattutto di quello americano. Non avevo ancora compreso bene la straordinaria abilità  statunitense di vendersi al disopra del proprio valore reale, in forte contrasto con l’eccezionale abilità italiana di svendersi (ma la conseguenza delle due manovre opposte è essenzialmente la stessa: mascherare la natura mercantile e compromissoria del discorso politico; il compromesso è l’equivalente in politica della dialettica in filosofia). 

In termini aristotelici, si potrebbe dire che la retorica della politica americana è quella della tragedia, nel senso che dipinge i suoi protagonisti come più grandi di quello che veramente siano; e la retorica italiana è quella della commedia, che raffigura i suoi protagonisti come più piccoli di quel che effettivamente siano. A quale teatrino, dunque, stiamo per assistere a New York? Tutti possiamo sbagliare nelle previsioni; ma i “parenti poveri” hanno meno paura di sbagliare degli altri, e in ogni caso l’essenziale è liberare il pensiero, metterlo in una buona comunicazione con il subconscio. 

La funzione — che non è esagerato definire storica — di Donald Trump è stato di fare i passi avanti più radicali in questo senso, con tutti i pericoli etici e cognitivi connessi a questo dialogo quasi-diretto con il subconscio. Trump è stato in tutta la campagna elettorale il candidato più creativo, in quanto ha cambiato i termini del linguaggio politico in un modo che avrà conseguenze per il futuro. Dopo il suo meteorico passaggio, il Partito Repubblicano si sposterà verso un discorso più moderato, mentre per bilanciato contrasto il Partito Democratico elaborerà un linguaggio meno eufemistico e ipocrita; il che, in quest’ultimo caso, è stato anche l’effetto di un altro passaggio meteorico, quello di Bernie Sanders. Sarà interessante vedere se i poteri forti (o stato parallelo, o Deep State che dir si voglia) riusciranno a provocare qualche scivolone di Trump all’ultimo momento o se egli riuscirà ad arrivare alla nomination; ma in ogni caso il risultato di fondo è scontato, ed era scontato da tempo: i Repubblicani hanno già perso la loro corsa alla presidenza, e si accontenteranno dell’equilibrio già esistente fra il potere presidenziale e quello delle Camere.

La battaglia di New York metterà in chiaro, più flagrantemente che mai, come il segreto peggio nascosto della vita politica americana sia che l’elemento essenziale di ogni gara politica negli Usa è la manovra dei blocchi etnici in competizione fra di loro; anche se la Ppu fa del suo meglio per conservare il semi-segreto, limitando l’uso della parola “razza” alla sua utilizzazione sotto forma di accusa di “razzismo” alla parte politica di volta in volta avversa (come di solito accade, i comici sono stati i primi ad accorgersi che il re è nudo, e a parlare di “razzismo dell’antirazzismo”). Tutti sappiamo che è tramontata l’idea del “crogiolo” o melting pot che avrebbe dovuto fondere tra di loro nella società americana le appartenenze etniche, religiose, ideologiche più diverse. Invece di questa fusione, quello cui effettivamente ci troviamo di fronte sono blocchi etnici; ma blocchi sgretolati, con numerose fenditure interne; e allora la sfida che ogni parte politica affronta è quella di sfruttare a proprio vantaggio le sgretolature presenti nel blocco potenzialmente avverso a lei. 

Come al solito, questo segreto non-segreto sarà mantenuto fino all’ultimo momento; poi, appena arrivati i risultati delle elezioni, il New York Times (maestro dell’eufemismo sornione) si sentirà libero di analizzare sistematicamente i risultati, distinguendo il voto ebraico da quello cattolico, il voto nero da quello bianco, ecc. Intanto, forse, un paio di considerazioni (“non è vietato pensare”) si possono avanzare.    

New York è la città (ce lo ha ricordato una fonte non sospetta di pettegolezzi anti-italiani come il governatore dello Stato, Andrew Cuomo, dando il benvenuto a Manhattan lo scorso febbraio al nostro presidente della Repubblica) la cui popolazione di origine italiana equivale pressapoco alla popolazione della città di Roma. Ed è anche la città (ce lo ha menzionato una fonte non sospetta di gossip antisemitico come una rubrica del New York Times) in cui la popolazione ebraica è la più numerosa, dopo Tel Aviv, di ogni altra città al mondo. Quanto alla popolazione nera e a quella ispanica, non c’è nemmeno bisogno di fare cifre. Si tratta dei quattro blocchi sulle cui alternanze si giocano le elezioni a sindaco della città — con qualche occasionale spazio per quella che si avvia a essere la nuova minoranza: la popolazione bianca di radice più o meno cristiana, e prevalentemente protestante.

Queste primarie, allora, si giocano in buona parte sui passaggi di voti causati dalle fenditure fra questi blocchi. Per esempio, il risultato di Sanders dipenderà dalle crepe dentro il blocco ebraico (difficoltà di Sanders, ebreo “laico” e progressista), che la Clinton tenterà di sfruttare insistendo sul lato duro del suo discorso internazionale; e anti-simmetricamente il risultato della Clinton (che vive — in questo come in altri rispetti — all’ombra del marito, il quale com’è noto fu definito “il miglior presidente nero nella storia degli Stati Uniti”) dipenderà dalle fenditure dentro il blocco dei neri, che Sanders sta corteggiando sulla base del suo populismo. 

Comunque, anche qui (come nel caso di Trump) i giochi sono sostanzialmente fatti. Dopo il passaggio della meteora Sanders (che se non altro ha tolto la patina demoniaca, per gli Usa, dalla parola “socialismo”, con più di mezzo secolo di ritardo rispetto all’Europa), la Clinton si avvia alla sua non-gloriosa vittoria presidenziale. Da New York (qualunque siano i suoi risultati alle primarie), Hillary Clinton può guardare a Washington; dove porterà, fra tante altre cose, la definitiva mediocrizzazione (in stile di “brand” commerciale) dell’ideologia femminista.