Forse qualcuno ricorderà l’imbarazzo provocato l’anno scorso negli Stati Uniti dal completo fallimento di un programma del Pentagono per l’addestramento di ribelli anti-Isis in Siria. Un piano di diverse centinaia di milioni di dollari con l’obiettivo di addestrare una forza di circa 5mila ribelli, ma cancellato lo scorso ottobre dopo che le prime decine di ribelli addestrati e il loro armamento erano caduti in mano alle milizie di al Nusra (al Qaeda).
Ora sembra che l’operazione sia ripartita con un programma più limitato e indirizzato esclusivamente contro l’Isis, che riguarda soprattutto combattenti arabi, come riporta il sito Foreign Policy, utilizzando per l’addestramento gli appartenenti alle forze speciali Usa già presenti in Siria. I curdi, che peraltro hanno già dimostrato di saper combattere, tendono a collaborare con i russi nella lotta anche contro altre formazioni ribelli al regime di Assad, cosa che non garba agli americani.
Nuovo imbarazzo è però stato creato da un articolo apparso negli scorsi giorni sul Los Angeles Times che dava notizia di scontri tra milizie arabe finanziate dalla Cia e altre milizie facenti capo allo Sdf (Syrian Democratic Forces) finanziato dal Pentagono. Fonti americane hanno ammesso che, in una situazione talmente complicata come quella siriana, fatti del genere non possono essere esclusi. Tuttavia, grazie ai bombardamenti russi e della coalizione guidata dagli Usa e alle forze sul terreno, principalmente peshmerga curdi, milizie del Sdf ed esercito governativo, lo stato islamico ha perso notevoli porzioni di territorio. Foreign Policy riporta i dati di una ricerca IHS Jane’s, società angloamericana di intelligence, secondo i quali l’Isis nel 2015 ha perso circa il 14% dei territori conquistati e un ulteriore 8% in questi primi mesi del 2016.
Dopo la recente riconquista della città di Palmira da parte dei governativi sostenuti dagli aerei russi, l’obiettivo principale è ora la conquista della “capitale” del califfato, Raqqa, che darebbe un gravissimo colpo allo stato islamico. Sul piano politico, sembra avanzare la collaborazione tra Mosca e Washington, pur con una certa cautela, soprattutto per il diverso atteggiamento nei confronti del regime di Assad. Il ruolo di Assad rimane fondamentale anche per i prossimi colloqui di pace fra le varie forze siriane che dovrebbero tenersi a Ginevra il 9 aprile. Gli oppositori al regime, soprattutto quelli più vicini all’Arabia Saudita, ritengono impossibile ogni soluzione che non preveda l’uscita di Assad dal governo, mentre quest’ultimo si oppone a un governo di transizione e si dice disposto ad accettare un governo di “larghe intese” , di cui facciano parte anche le attuali opposizioni.
Il parziale cessate il fuoco in atto da poco più di un mese ha ridotto notevolmente le vittime civili degli scontri, scese a “soli” 360 morti rispetto ai 1100 del mese precedente, secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani. Fonti dei ribelli accusano però il governo di aver intensificato negli ultimi giorni gli attacchi anche contro formazioni che avevano firmato la tregua.
Una prima, amara conclusione che si può trarre da questo complicato quadro è che la sconfitta dell’Isis, evento ora più probabile ma certamente non vicinissimo, non porrà fine alla guerra civile in Siria, né alla lotta contro l’estremismo islamico. Bisognerà infatti riconquistare le zone controllate da altre milizie jihadiste, come al Nusra, e poi occorrerà intervenire nei conflitti derivanti dalle tante altre divisioni, religiose, tra sunniti e sciiti, ed etniche, come quelle tra curdi, arabi e turkmeni che hanno segnato gli scontri di cui si è parlato prima.
Anche la pregiudiziale posta dalle opposizioni, la cacciata di Bashar al Assad, non basterà per risolvere la crisi. Gli alawiti che sostengono l’attuale regime non accetteranno mai di finire sotto la maggioranza sunnita, sostenuti probabilmente in questa posizione da Russia e Iran. Anche gli Stati Uniti dovrebbero affrontare con prudenza la questione, tenendo presente il disastro combinato in Iraq a parti invertite, dove lo smantellamento dell’apparato statale baathista e le discriminazioni del governo a conduzione sciita contro i sunniti sono tra le cause del successo dell’Isis.
Occorre tener conto inoltre anche del problema curdo. I curdi sono stati i più tenaci combattenti contro l’Isis, sia in Siria che in Iraq, e si sono dichiarati in favore di un assetto federale della Siria, sul quale Mosca ha già dato il suo assenso. Tanto per cominciare, a metà marzo hanno costituito un’amministrazione autonoma nella Rojava, il Kurdistan siriano nel nord del Paese, instaurando buone relazioni con i connazionali del Kurdistan iracheno, da tempo autonomo pur formalmente dipendendo dal governo di Baghdad. La formula federalista è invece rifiutata e vista come un tentativo di dividere la Siria su basi etniche sia dal governo siriano che dai suoi oppositori di etnia araba. Altri gruppi, come turkmeni, assiri e yazidi, sono divisi tra le diverse opzioni.
La formula federalista è fortemente osteggiata anche dalla Turchia, perché limiterebbe l’influenza di Ankara su una Siria liberata da Assad e potrebbe rappresentare una fase preliminare alla costituzione di uno Stato curdo a cavallo tra Siria e Iraq, contiguo alla regione turca abitata in maggioranza da curdi. E’ il sogno di indipendenza dei curdi da sempre visto come grave pericolo dalla Turchia e che potrebbe porre qualche problema anche all’Iran, dove pure vi è una minoranza curda.
Difficile trovare una soluzione in tempi brevi e c’è solo da sperare che almeno regga il cessate il fuoco, mentre intanto continua l’odissea dei rifugiati. In un’intervista alla Bbc, il rappresentante per le migrazioni internazionali del segretario generale dell’Onu ha dichiarato contrario al diritto internazionale l’accordo Ue-Turchia che prevede che la Grecia rimandi in Turchia i rifugiati prima di prendere in considerazione le loro richieste di asilo. Amnesty International ha accusato Ankara di espellere illegalmente i rifugiati dal suo territorio, mentre la Grecia dichiara di non aver personale sufficiente per gestire propriamente l’accordo.
Forse qualche orecchio comincia a fischiare a Berlino: a Bruxelles sono notoriamente sordi a tutto ciò che non nasce nelle loro ovattate stanze.