“Dopo gli ultimi sviluppi di questa vicenda, il presidente al Sisi è seriamente intenzionato a scoprire la verità sul caso Regeni e lo farà. Le autorità egiziane hanno tutti gli strumenti per farlo, perché quello che abbiamo è uno Stato di polizia e chi governa ha gli occhi dappertutto”. Lo afferma Shahira Amin, ex vicedirettrice della tv pubblica egiziana Nile Tv e attualmente giornalista indipendente. Ieri, giovedì, sono iniziati gli incontri tra gli investigatori italiani ed egiziani che stanno indagando sull’uccisione di Giulio Regeni. L’Italia chiede materiale probatorio come tabulati telefonici, immagini video, verbali e referti.



Che cosa si aspetta da questo vertice tra gli investigatori italiani e quelli egiziani?

Dopo l’ultimo incidente, quando si è cercato senza successo di dare la colpa dell’uccisione di Regeni a una gang criminale, le autorità egiziane si sono rese conto che la verità deve venire alla luce. Soprattutto dopo le dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, che ha minacciato di interrompere le relazioni e di assumere misure severe nei confronti dell’Egitto, anche al Cairo si è capito che i responsabili devono essere scoperti.



Qual è lo spirito con cui le autorità egiziane affrontano questo incontro?

Le autorità egiziane cercheranno di essere trasparenti e di collaborare. Avevano pensato di potersi permettere di non rivelare la verità, ma oggi è chiaro che su questa vicenda c’è una tale pressione da parte della comunità internazionale che non si può ignorarla.

Che cosa dicono i media egiziani di questa vicenda?

Per la prima volta anche i media egiziani stanno affrontando questa vicenda in modo diverso. Il quotidiano semi-ufficiale Al Ahram, che normalmente prende le parti del governo, ha pubblicato un editoriale del direttore responsabile in cui si afferma: “La verità deve venire alla luce, non vogliamo perdere un alleato”.



Gli inquirenti dispongono degli strumenti per venire alla luce di questa vicenda?

Se vogliono scoprire la verità hanno gli strumenti per farlo. L’Egitto è realmente uno Stato di polizia e chi governa ha occhi dappertutto. Il delitto Regeni dunque non può restare irrisolto. Per il governo egiziano le relazioni tra Italia ed Egitto sono troppo importanti per essere sacrificate, e quindi ora è pronto a rivelare la verità.

Che cosa ne pensa della vicenda delle e-mail anonime inviate a Repubblica?

Ho apprezzato molto il fatto che le autorità giudiziarie italiane abbiano detto che si rifiutano di considerarle come materiale valido per le indagini. In una lettera anonima si può scrivere qualsiasi cosa. Una parte della società egiziana sarebbe contenta di vedere la caduta del regime, e quindi ritengo che non sia una pista corretta da seguire. Un contenuto quasi identico a quello riportato nelle e-mail anonime era presente in un post pubblicato su Facebook da Omar Afify, ex generale egiziano fuggito negli Stati Uniti, noto per essere un oppositore del governo.

E’ possibile che sia in corso un conflitto all’interno dello stesso regime egiziano?

Ci sono chiaramente delle divisioni all’interno dell’apparato di sicurezza, e questo è emerso con grande chiarezza sui media. Una parte dell’apparato è leale al precedente regime, un’altra parte sta pubblicando informazioni provenienti dai servizi segreti e un’altra ancora dalla sicurezza nazionale. Non voglio negare quindi una spaccatura evidente, ma ritengo che alla fine questo non impedirà alla verità di venire alla luce.

 

Ritiene che il presidente al Sisi fosse al corrente di quanto stava avvenendo a Regeni?

Ritengo che non si possa affermare una cosa del genere. Credo che al Sisi non fosse a conoscenza di quanto stava avvenendo né tantomeno che l’abbia approvato: è troppo intelligente per commettere un errore del genere. Non penso neppure che la responsabilità sia stata dei servizi segreti, ritengo piuttosto che si sia trattato di un atto individuale. Personalmente trovo che al Sisi fosse sincero quando ha affermato nell’intervista a Repubblica che intende scoprire la verità. Ritengo dunque che il presidente non sia implicato nell’uccisione del ricercatore italiano.

 

(Pietro Vernizzi)