Come purtroppo prevedibile, le violazioni della tregua tra armeni e azeri in Nagorno Karabach dello scorso novembre sono riprese nei giorni scorsi e questa volta con dimensioni più ampie. Questi ultimi scontri sono iniziati sabato scorso e hanno coinvolto artiglieria e mezzi corazzati dell’esercito azero e delle forze di difesa dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabach appoggiate dall’Armenia, causando decine di vittime, anche civili. Grazie alle pressioni internazionali, particolarmente quelle congiunte di Stati Uniti e Russia, martedì è stato raggiunto un accordo sul cessate il fuoco in vista di colloqui avviati per lo stesso giorno a Vienna, in seno al cosiddetto Gruppo di Minsk.
Il gruppo è stato creato dall’Osce nel 1992 per cercare di arrivare a una soluzione definitiva del conflitto tra Armenia e Azerbaigian, ma finora senza risultati consistenti, come dimostrano i fatti di questi giorni. Oltre i due Stati direttamente coinvolti, ne fanno parte rappresentanti di Bielorussia, Finlandia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Svezia e Turchia, sotto la copresidenza di Francia, Russia e Stati Uniti. Come si ricorderà, Minsk è anche sede dei colloqui, sempre sotto il patrocinato dell’Osce, tra i rappresentanti delle due autoproclamate repubbliche separatiste del Donbass e quelli dell’Ucraina e della Russia.
La recrudescenza degli scontri, accanto a cause interne ormai purtroppo endemiche, ha origine anche dal brusco peggioramento delle relazioni tra Turchia e Russia dopo l’intervento russo in Siria, in parallelo al contrasto tra Russia, Usa e Ue sulla questione ucraina. La Turchia è nettamente schierata con l’Azerbaigian, la cui popolazione è di ceppo turco e in maggioranza musulmana, mentre la Russia ha sempre appoggiato l’Armenia, indoeuropea e cristiana, con cui ha un trattato di difesa e che è parte, con Russia, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan dell’Unione Economica Eurasiatica. Il presidente turco Erdogan ha buttato benzina sul fuoco dichiarando il sostegno della Turchia all’Azerbaigian “fino alla fine”, provocando la reazione del presidente armeno Serzh Sarksyan, che ha paventato una pericolosa escalation della situazione fino a una guerra totale.
Pur essendo nettamente schierata a protezione dell’Armenia, Mosca non ha però alcun interesse a inimicarsi l’Azerbaigian, ottimo acquirente di armi russe. Grazie alle cospicue entrate derivanti dal petrolio, il governo di Baku ha negli ultimi anni speso parecchio in armamenti e la sua forza militare è enormemente superiore a quella armena. Tuttavia, il crollo dei prezzi del petrolio sta mettendo in difficoltà anche l’economia azera, acuendo l’ostilità verso il dispotico governo del presidente Ilham Aliyev, accusato di frequenti violazioni dei diritti umani, di mano pesante verso gli oppositori e di governare il Paese con una struttura feudale di alleati e soci in affari. Nessuna meraviglia quindi che lui e la sua famiglia siano apparsi negli elenchi dei Panama Papers attualmente alla ribalta della cronaca.
Per la verità, anche la situazione interna dell’Armenia non è del tutto tranquilla e diversi commentatori fanno risalire a questioni interne dei due Paesi la recente ripresa degli scontri. Certamente, la tentazione per entrambi i governi di utilizzare i rispettivi nazionalismi per consolidare la propria posizione è forte, ma è altrettanto chiara l’impossibilità di risolvere la questione dell’enclave contestata per via militare. D’altra parte la via diplomatica, dopo 22 anni dalla fine della guerra, non ha portato ad alcuna soluzione, ponendo il Gruppo di Minsk al centro di molte critiche. Anche l’ultima riunione non ha potuto far altro che invitare le parti a rispettare la tregua e prospettare una serie di visite di rappresentanti dei vari Paesi per verificare la situazione sul campo. Così come diversi governi si sono offerti come mediatori, a partire da Russia e Iran, uno scenario che si ripropone da molti anni senza risultati significativi.
Per l’Onu, il Nagorno Karabach deve tornare a far parte dell’Azerbaigian, in nome del principio di integrità territoriale degli Stati, ma gli armeni oppongono il diritto all’autodeterminazione della popolazione dell’enclave. Come in altri numerosi casi di contrapposizione tra questi due principi, la soluzione non può che venire dalle due parti in causa, anche se per Baku ciò che è in discussione è la rinuncia a circa il 20% del proprio territorio e per l’Armenia l’abbandono di circa 150mila connazionali e di un territorio da sempre considerato armeno.
Tra Armenia e Azerbaigian vi è un altro punto di attrito, il Nakhchivan, un territorio abitato da azeri costituito in repubblica autonoma ma parte dell’Azerbaigian, dal quale rimane separato dal territorio armeno. Un altro caso di frammentazione derivante prima dalla caduta degli imperi ottomano e russo e poi dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, per cui l’Azerbaigian, insieme a un’enclave armena al suo interno, si ritrova con una sua exclave al di là dell’Armenia. Forse proprio l’assurdità di questa situazione dovrebbe portare i due Stati ad accordarsi per una sua gestione comune.
Il punto debole rimane l’Armenia, come purtroppo spesso nella sua storia, perché l’Azerbaigian può contare sull’incondizionato e interessato appoggio della Turchia, sul già visto interesse della Russia a mantenere buoni rapporti e su interessanti relazioni con l’Iran dopo la recente visita di Aliyev a Teheran. Mosca e Teheran sembrerebbero agire nella stessa direzione, cercando di evitare rapporti troppo stretti tra Baku e Ankara e spingendo l’Azerbaigian a mantenere un atteggiamento di sostanziale neutralità nella questione siriana, resistendo alle offerte di Turchia e Arabia Saudita.
In questo quadro, l’Armenia rischia di tornare a essere un satellite russo in funzione antiturca ed eventuali aperture all’Ue porterebbero a uno scenario ancor peggiore di quello ucraino. L’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, Federica Mogherini, si sta prodigando in questi giorni con ripetuti inviti alle parti di trovare una soluzione pacifica al conflitto. Gli stessi inviti fatti direttamente durante la sua visita a Baku e a Erevan, due settimane prima della ripresa degli scontri.