La notizia non è affatto passata inosservata, fra Wall Street e Washington, quando ormai le presidenziali americane volgono alle convention estive, a ridosso di un duello autunnale che sembra assegnato a Hillary & Don,  runner vincenti delle primarie. Sarà Steven Mnuchin il responsabile finanziario della macchina organizzativa di Trump: con il compito di gestire e rafforzare i collegamenti con gli ambienti finanziari (banche, brokers, grandi gestori) dove già il tycoon newyorkese gode di relazioni ramificate.



Mnuchin non è un cognome qualsiasi a Manhattan: il quartier generale della sua Dune Capital Management è al 623 della Quinta Strada, poco lontano dalle strade esclusive dell’Upper East Side dove Mnuchin è nato 52 anni fa. Suo padre Robert ha trascorso una vita alla Goldman Sachs prima di diventare, negli anni ’90, uno dei mercanti d’arte più influenti nella Grande Mela. Gavetta alla Goldman e passione per l’arte fra business e glamour nella New York che conta, quella ebraica: lo stesso pedigree esibito da Mnuchin Jr, ora a fianco di Trump, personaggio apparentemente agli antipodi di ogni establishment. Ma tant’è, alla vigilia di quello che si profila come un derby newyorkese. Un derby nel quale Trump, terza generazione d’immigrazione irlandese, può forse reclamare il campo di casa più di Hillary Clinton, approdata sulle rive dell’Hudson – anzi a Brooklyn – come senatrice dopo aver seguito il marito dall’Arkansas alla Casa Bianca. 



Certo, l’ex First Lady divenuta “candidata inevitabile” dei democratici, è organica al milieu finanziario statunitense: che da sempre le garantisce finanziamenti generosi e solidi appoggi, soprattutto fra i “media”. Però è un fatto che i più sofisticati ambienti intellettuali della “capitale morale” nordamericana – tradizionalmente oscillanti fra posizioni “liberal” e “radical” – in un anno di campagna elettorale sono parsi tacitamente rinunciare al “bando” politico-antropologico per Trump. La scelta di Mnuchin lo conferma e segnala anzi un salto di qualità: da parte della Upper Manhattan e dei suoi “poteri forti”, ma anche da parte di Big Don. 



La forza di Trump – che in alcuni momenti è sembrata travolgente al di là della sua costante “scomodità” – non può essere più relegata in un assecondamento condiscendente e silenzioso. L’establishment finanziario – ma non solo  – inizia a gettare le basi per un sostegno esplicito. Tale supporto è peraltro sempre più gradito a un Trump che fino alla scorsa estate ha certamente tenuto lontano quel mondo politico ed economico non associabile al “nuovo” che indubitabilmente Trump rappresenta, anche se in chiave di rottura o di rifiuto della “globalizzazione americana”.

Mnuchin – un finanziere “indipendente” a Wall Street – è a sua volta un viso nuovo, con i numeri giusti per avvicinare il Grande Outsider ed esserne avvicinato. La capacità di organizzare una potente rete di raccolta di donazioni a finanziare la campagna elettorale che ora parte nella sua fase più impegnativa, lascia sperare bene rispetto al raggiungimento dell’obiettivo di un miliardo di dollari di raccolta per coprire gli impegni da qui a novembre. La mancanza di esperienza all’ interno del partito repubblicano, normalmente associabile a una posizione di debolezza, potrebbe rivelarsi anch’essa un forte punto a favore.

Il supporto a oggi percepito dalla componente classica del partito repubblicano non potrebbe essere più basso: oltre alla dichiarazione di Paul Ryan di non essere pronto al sostegno al candidato del suo partito, anche gli ultimi due presidenti repubblicani, Bush padre e figlio non sembrano assolutamente intenzionati a partecipare alla prossima riunione del partito in Cleveland. Alla luce di questa notizia appare ancora più sorprendente la prontezza con cui Mnuchin ha aderito all’ invito di Trump: il quale, peraltro, non ha esitato a lanciare un amo pesante nel potente partito-azienda Goldman, finora abbastanza parsimonioso con il campo Trump. 

Non diverso era stato il comportamento di molti gestori  di hedge fund: orientativamente sostenitori del partito repubblicano, ma tendenzialmente restii di fronte al fenomeno Trump. Il mercato spesso sbaglia, ma raramente prende topiche colossali: e Jeffrey Gundlach – Ceo-guru di DoubleLine e tutto fuorché un fan di Trump – ha cominciato a dire che la vittoria del tycoon può diventare realtà.