Che fine ha fatto Vladimir Putin? Dopo mesi di interventismo e presenza fissa a livello globale, il Presidente russo pare abbia scelto un basso profilo, limitando sia le uscite che le apparizioni. Qualcosa bolle in pentola? Sì e la mossa principale è stata compiuta il 30 aprile scorso, quando proprio il numero uno del Cremlino ha nominato vice-presidente del suo Consiglio economico una vecchia conoscenza come Aleksej Kudrin, economista liberale e riformatore il cui compito è solo uno: riconquistare gli investitori e i mercati stranieri.
Come mai Kudrin ha deciso di tornare in prima linea, dopo aver lasciato il ministero delle Finanze nel 2011 ed essere tornato a San Pietroburgo a fare il preside di facoltà? Tanto per capirci, Kudrin fu l’uomo che volle e difese con le unghie e i denti i fondi sovrani in cui vennero custoditi i guadagni dell’export di greggio e gas, gli stessi che garantirono il finanziamento extra-budget alle Olimpiadi di Sochi e il salvataggio della Vneshekonombank. Tempo di riforme? No, non subito. Putin ha infatti gli occhi fissi sul 2018, l’anno in cui intende farsi rieleggere alla presidenza e in campo economico c’è un unico uomo di cui si fida, proprio Kudrin, il quale è stato nominato anche capo del Centro elaborazioni strategiche, organo con il compito di definire la strategia di sviluppo dopo il 2018. Prima di allora non aspettiamoci scossoni, tipo la riforma delle pensioni o quella fiscale, ma sicuramente un attivismo che potrà dare fastidio a molti.
La scorsa settimana, infatti, quella in cui il premier inglese David Cameron ha definito la Russia un pericolo pari all’Isis per un Regno Unito che scegliesse il Brexit (la paura fa dire idiozie a ogni livello), al Jumeirah Carlton Hotel di Knightsbridge, nel centro di Londra, la banca a controllo statale russa Vtb ha tenuto la sua prima conferenza nel Regno Unito in tre anni, un vero e proprio test per capire l’appetito degli investitori e l’appeal su cui si può fare affidamento. All’evento hanno partecipato oratori di alto profilo come il vice-ministro delle Finanze, Alexey Moiseev, ma il core business sono stati gli incontri individuali fra le principale industrie russe e potenziali investitori, nell’ambito di questa due giorni di lavori intitolata con il più sobrio Vtb Investor Day invece che Russia calling come avveniva in passato.
Per Aleksey Ivanov, capo dei servizi di advisory per transazioni alla EY di Mosca, «questo è probabilmente un buon momento per essere compratore, ma ci sono ancora troppo poche buone opportunità sul mercato, di fatto o distressed assets o compagnie bona fide con un prezzo però molto alto». Ovviamente, una delle ragioni della scarsità di assets desiderabili sono le sanzioni che mantengono lontani gli investitori con base nell’Ue dall’acquisto di nuovo debito o equity dalle cinque banche a controllo statale (compresa Vtb), oltre che dalle tre aziende energetiche e dalle tre della difesa. Uniamo a questo il fatto che a luglio l’Ue stessa sarà chiamata a decidere per un’estensione o l’eliminazione delle sanzioni e che il veto commerciale è in vigore anche negli Usa e si capisce come le prossime settimane rappresentino uno snodo cruciale per l’economia della Russia.
Le nuove emissioni obbligazionarie da parte di aziende russe, infatti, sono calate di tre quarti, scendendo dai 101 miliardi di dollari per 288 emittenti nel 2013 ai 27 miliardi e 185 emittenti dello scorso anno, stando a dati di Dialogic. Gli accordi equity, come le Ipo, sono scesi da 10 miliardi di dollari a 1,7 miliardi, con il 2015 che ha visto la raccolta fondi più bassa dal 2003. Da inizio anno, l’attività finanziaria è calata ancora, con l’emissione di debito al -12% su base annua e quella di equity al -18%. Insomma, le sanzioni hanno fatto male, ma non hanno affatto ammazzato Mosca come speravano gli Stati Uniti, i quali hanno compiuto l’enorme errore di scambiare Vladimir Putin per Boris Eltsin.
Non è così e pur senza la collaborazione di Kudrin, appena tornato, la gestione dell’economia è stata tale che nel primo trimestre di quest’anno il Pil russo si è contratto solo dell’1,1%, meno di quanto atteso e decisamente meglio del -3,8% su base annua del quarto trimestre del 2015. Lo stesso Fondo monetario internazionale ha detto di attendersi che l’economia russa si contragga dell’1,5% quest’anno prima di tornare alla crescita nel 2017, ma, contestualmente, l’inflazione scenderà dall’11% al 6,5%. Per Georgy Egorov di Ubs, «è chiaro che la Russia sta uscendo dalla crisi, ma certo non aspettiamoci più il ripetersi del decoupling di performance economica dei mercati emergenti dal mondo sviluppato. Serviranno venti a favore dall’economia globale per ripartire, ma siamo decisamente ottimisti sulla Russia».
E Washington che fa? No dice nulla? Ovviamente sottotraccia le pressione affinché a luglio l’Ue sia così stupidamente suicida da votare l’estensione alle sanzioni sono presenti da tempo, soprattutto in Germania e Francia, ma ho il timore che gli Usa stiano giocando la partita su un altro tavolo, decisamente più pericoloso perché non governato interamente dalla politica. Non stupisce, infatti, che in pressoché contemporanea con il ritorno di Kudrin nelle stanze dei bottoni, uno dei membri Nato più strategici per gli interessi statunitensi in Europa, la Polonia, esprimesse questo concetto: «Qual è la più grande e pericolosa minaccia per il mondo libero? Non il Califfato, bensì la Russia». Parola del ministro degli Esteri polacco, Witold Waszczykowski, citato da molti siti europei, tra cui quello della Die Welt.
Il capo della diplomazia del governo al potere nel più grande Paese orientale della Nato dopo le elezioni del 25 ottobre scorso, ha reso tali dichiarazioni in pubblico durante un dibattito sul futuro dell’Alleanza atlantica svoltosi nella capitale slovacca, Bratislava. Stando al giudizio di Waszczykowski, le attività della Russia «sono una minaccia esistenziale, perché possono distruggere Paesi». Anche le attività dell’Isis, ha continuato, «sono un grandissimo pericolo, ma il Califfato jihadista però non minaccia l’Europa nella sua esistenza. Per questo, la Nato dovrebbe rafforzare la sua presenza militare nei suoi Paesi membri orientali, al fine di dimostrare determinazione a fronte di Mosca».
Si sa, la Polonia riceve aiuti sia militari Nato, sia economici dell’Ue (vengono da Bruxelles fondi di coesione pari a un terzo della crescita annua del Prodotto interno lordo polacco) e quindi deve cercare di non urtare la suscettibilità di nessuno dei due soggetti, ma questa volta l’appello pare qualcosa di più: definire la Russia un pericolo maggiore dell’Isis, ancorché provenendo da un background storicamente russofobo, significa altro. Ovvero, aprire un nuovo fronte di tensione a Est.
Un fronte già caldo, d’altronde. Dopo i centri di comando in Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania, aperti ufficialmente il 3 settembre scorso e pienamente operativi, entro il prossimo luglio (in contemporanea con il voto Ue sul rinnovo delle sanzioni a Mosca), i ministri della Difesa dell’Alleanza atlantica hanno approvato, infatti, la creazione dei nuovi centri in Ungheria e in Slovacchia, il cui scopo sarà quello di facilitare il dispiegamento rapido di truppe Nato e di coordinare le esercitazioni.
L’Ungheria, però, non è un membro facile da gestire e Orban da tempo flirta con Mosca, pur non potendosi del tutto inimicare Bruxelles, soprattutto dopo la costruzione del muro anti-immigrati. Confinando con l’Ucraina, l’Ungheria è avamposto Nato privilegiato: Orban potrà ancora per molto tenere il piede in due scarpe? E l’Europa voterà con coscienza rispetto alle sanzioni verso la Russia o per imposizione strategica di un’agenda nei confronti di Mosca che diviene giorno dopo giorno, da parte Usa, sempre più declinata sul piano del confronto militare attraverso la Nato?
Persi come siamo a guardare i piccoli guai quotidiani, gli allarmi a tempo, rischiamo di non renderci conto che la frontiera Est dell’Europa sta diventando un campo di battaglia, silenzioso ma letale. Una cosa è certa, Putin non è uomo che si arrenda senza aver combattuto la sua battaglia e finora ne ha dato prova con i fatti. Il problema è altro: con Obama anatra zoppa in scadenza di mandato, chi sta gestendo l’ulteriore rafforzamento della presenza Nato a Est in atto? Chi sta spingendo verso un aumento illimitato della tensione?
Non pensiate che siano domande esagerate da porsi, perché l’agenda Nato verso Mosca è appena stata cambiata e la dottrina non è più quella di contenimento e dissuasione, ma preparazione a uno scenario di reazione rapida a un contesto bellico. Lo dicono le carte, lo ribadiscono i generali. Qualcuno sta scherzando con il fuoco, ben sapendo che a bruciarsi sarebbe mezzo mondo. Il Cremlino così silente come in questi giorni deve fare paura, non tranquillizzare.