Tra annunci e smentite sull’invio di uomini e missioni di vario tipo, non sembra davvero più possibile per l’Italia tirarsi indietro nel marasma libico. Dopo aver chiesto, durante il vertice di Vienna dello scorso 16 maggio, l’alleggerimento dell’embargo di armi, in corso nel paese dal 2011, il primo ministro libico Serraj ha inviato all’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Federica Mogherini, una lettera in cui fa espressa richiesta di un rapido sostegno dell’Ue nel contribuire all’addestramento di Marina e Guardia costiera libiche e dei servizi di sicurezza. In risposta alla richiesta formale del Gna (governo di accordo nazionale), i ministri degli Esteri dell’Unione Europea, riuniti lunedì a Bruxelles, hanno deciso di dare il via libera per l’estensione di un anno del mandato dell’operazione a guida italiana Eunavfor Med ed hanno aggiunto l’impegno per l’addestramento — che però dovrebbe avvenire al di fuori delle acque nazionali libiche — e la condivisione di informazioni con la Guardia costiera e la Marina libica per il contrasto dei trafficanti di esseri umani e dell’immigrazione irregolare. 



Si tratta di una scelta importante per il contenimento dei crescenti flussi migratori che solcano il Mediterraneo dopo la chiusura della rotta balcanica — che ci è costata, peraltro, un “contratto capestro” con la Turchia — e dello “strano” aumento delle partenze dall’Egitto dopo l’escalation di tensioni bilaterali legate all’omicidio di Giulio Regeni. I numeri parlano chiaro: l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stima che più di 190mila migranti sono arrivati in Europa quest’anno attraverso il Mar Mediterraneo e che più di 1.300 sono morti in mare.



Potrebbe consistere in questo, per lo meno a breve, l’intervento italiano in Libia, se non fosse che, tenendo fede all’oramai nota strategia del leading from behind, gli Stati Uniti sembrano aver deciso ancora una volta che per noi potrebbero esserci altri piani.

Il capo di Stato maggiore americano Joseph Dunford ha infatti dichiarato pochi giorni fa al Washington Post che l’accordo per una missione militare in Libia potrebbe essere raggiunto “da un giorno all’altro” e che l’Italia conferma il suo impegno per il ruolo guida, se ci saranno alcune condizioni, tra cui la richiesta dell’intervento da parte del governo libico, l’identificazione delle milizie da addestrare e il sostegno internazionale, possibilmente attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. 



Un copione già visto. E’ stato Obama e non Renzi, infatti, ad anticipare che l’Italia avrebbe inviato soldati a protezione della diga di Mosul in Iraq. E sempre da fonti americane è giunta la notizia degli accordi segreti per far partire i droni americani dalla base Sigonella. Pare, insomma, che gli “amici” d’oltreoceano amino metterci davanti al fatto compiuto. Sarà forse una strategia made in Usa quella di puntare sull’attore che — politicamente ma non militarmente nel caso italiano — viene considerato il ventre molle dell’alleanza?  

Difficile dirlo, in ogni caso non va dimenticato che, proprio a proposito di Mosul, siamo stati praticamente costretti ad inviare i nostri soldati a protezione dei lavori della diga, in una delle aree più a rischio del teatro iracheno. Il nostro contingente, che a “pieno regime” dovrebbe arrivare alle 500 unità circa, diventerebbe uno dei più massicci dell’area. 

Ma non è la prima volta che veniamo tirati per il bavero della giacca. Basta fare un passo indietro di poco più di 10 anni, alla guerra irachena del 2003, quando fummo “spinti” ad entrare in una “coalizione dei di volenterosi” — che forse, almeno per certi paesi, sarebbe stato meglio chiamare “dei coscritti” — in nome della dottrina della guerra preventiva, con conseguente esportazione della democrazia, di George W. Bush. Una guerra i cui risultati sono noti. E gli esempi potrebbero continuare.

Insomma anche questa volta gli americani — per utilizzare una espressione oramai nota — sembrano voler fare “i militaristi con i soldati degli altri”. Suonano, dunque, ora ancor più paradossali le dichiarazioni di Obama nell’intervista “mea culpa” rilasciata al The Atlantic lo scorso marzo in cui, in riferimento alla scellerata azione anglo-francese in Libia del 2011, riferendosi agli alleati non esitò a dire: “E’ ormai diventata un’abitudine negli ultimi decenni che in queste circostanze la gente ci spinga ad agire ma non mostri nessuna intenzione di rischiare nulla nel gioco”. E’ il caso di dire “predicare bene e razzolare male”.  

In ogni caso, non sappiamo con certezza se questa sia la solita anticipazione americana o un semplice monito al governo Renzi a fare di più in Libia. Ma tanto vale operare alcune considerazioni sulle conseguenza di un possibile intervento “più massiccio” a guida italiana in un contesto operativo come quello attuale.

In primo luogo il Gna di Serraj, nella migliore delle ipotesi, controlla solo una parte del paese. Non è giunto da Tobruk nessun riconoscimento formale e il generale Haftar, armato dall’Egitto e supportato anche dai francesi, sembra ben lontano dal voler deporre le armi ed intavolare un dialogo inclusivo con il neoinsediato governo tripolino. Pertanto, anche con un’esplicita richiesta formale del governo unitario, il teatro operativo libico resta molto rischioso sia per le fratture in essere, sia per la frammentarietà del territorio e delle milizie, anche nella stessa area della Tripolitania. 

In secondo luogo, un intervento militare richiederebbe una linea di supporto diplomatico internazionale coerente ed unitaria e questa, al momento, parrebbe proprio non esserci, visto che molti attori, tra la cui la Francia e la Gran Bretagna, in sede Onu hanno mostrato il loro volto presentabile, sostenendo le scelte della coalizione, ma nel frattempo hanno continuano a perseguire il proprio interesse nazionale “foraggiando” le milizie di Haftar in Cirenaica. Come se non bastasse, da indiscrezioni apparse su alcuni quotidiani nazionali, risulterebbe anche una presenza italiana nella base di Benina in Cirenaica. E’ necessario aggiungere altro per spiegare l’assenza di una chiara strategia per la Libia?