In questo complesso momento storico, che pare ribadire le dimenticate teorie di Raúl Prebisch sul dialogo tra economie centrali ed economie periferiche, l’America Latina sta risentendo nel suo insieme di una complessa congiuntura che apre le porte a una crisi profonda del subcontinente.
Non si vedevano tempi così bui dal crollo dei regimi neoliberali che, dalla fine degli anni 90, abbandonarono in massa i governi latinoamericani, dopo deregulation e privatizzazioni, lasciando spazio a una divisione geografica piuttosto nuova: aree di influenza chavista vincolate all’ideologia “socialismo siglo XXI” (i paesi andini, l’Argentina…), aree tradizionalmente liberali che così sono rimaste (Messico, Colombia…) e un nuovo protagonismo del Brasile che ha saputo, da solo, imporsi come economia emergente dai primi anni duemila.
La crisi economica dispiegatasi nel 2008, che ha fatto tremare l’Europa, non ha intaccato drammaticamente l’America latina: alcuni paesi sono addirittura cresciuti a tassi cinesi (Perù e Argentina su tutti) tanto da recuperare competitività e influenza sia nel contesto regionale sia, per esempio, nel contesto dei paesi non allineati.
E’ stato il caso venezuelano che, godendo dei benefici di un sostenuto prezzo del greggio e svincolandosi dal secolare sfruttamento della risorsa da parte di multinazionali straniere, ha costruito nuove basi per ampliare lo stato sociale e finanziare campagne elettorali nei paesi andini e non solo.
Se pensiamo a regioni che storicamente non hanno mai goduto di sistemi di welfare primario, come tutto il Centroamerica, Chavez, Correa e Morales, per citare alcuni esempi, hanno costruito “revoluciones ciudadanas” (movimenti di cittadinanza attiva) assai sostenute dalla popolazione civile (ma osteggiate dalle oligarchie) per via di una serie di benefici dispiegati: il riferimento è per esempio alla costruzione di infrastrutture, che dal XXI secolo diventano appannaggio dello stato. Certo le critiche a questi processi non sono mancate, e ora si fanno sentire particolarmente le accuse di neopatrimonialismo e corruzione che fioccano sulle teste dei governi in declino.
Questo perché i problemi strutturali, che da sempre attanagliano l’America latina, sono ben lontani dall’essere stati risolti.
Come agli esordi del processo globale (negli anni centrali del XIX secolo), anche oggi la regione pare ritornare ad essere un sistema periferico che, per sopravvivere, si aggancia alla “bonanza” dei sistemi centrali: quando le maggiori economie si espandono e dettano buoni prezzi per le commodities anche l’America latina è destinata a crescere, viceversa quando il ciclo si contrae per i sistemi centrali, per quelli periferici è una vera e propria catastrofe.
L’America latina è sempre stata dipendente dalle importazioni e, in svariati casi i paesi ad essa appartenenti si sono affacciati sui mercati mondiali come monoesportatori. La folle dipendenza da un solo bene, il cui prezzo dipende sempre da aree decisionali centrali, rende queste economie estremamente fragili e spesso incapaci di autosostenersi (si pensi a El Salvador durante la contrazione del prezzo del caffè alla fine degli anni 80).
Non lontano da questo scenario sono le cronache di questi giorni, che ci parlano di un Venezuela vessato dalla fame, senza medicine, senza generi di prima necessità, senza una chiara prospettiva per il ritorno alla normalità. Molta di questa crisi è dettata dalla contrazione del costo del bene primario prodotto dal paese: il petrolio. Il costo, come sempre, lo pagano le classi medio-basse.
L’opposizione al governo Maduro, che ha ormai assunto un certo protagonismo nella stampa internazionale, non ha molte opzioni sulle quali proporre una svolta: l’alternativa allo stato di entropia oggi in corso è un richiamo agli organismi multilaterali di credito, che però significa l’imposizione di una politica economica del tutto esogena e molto lontana dalle logiche chaviste che hanno condotto il Venezuela e i paesi ad esso associati fino ad oggi. Poco rimarrà del periodo che si sta chiudendo ora: lo spostamento verso il liberalismo dispiegato è imminente, Cuba docet.
I venti globali sono tornati ad essere troppo sostenuti per le caravelle latine: il subcontinente può rientrare ora senza molto sforzo nell’orbita statunitense.