La vicenda di Porto Rico e del suo debito di 72 miliardi di dollari sembra essere arrivata al capolinea. Il governo portoricano, dopo aver “saltato” il pagamento di 422 milioni a maggio, ha già dichiarato di non poter pagare neppure la prossima rata di 2 miliardi di dollari in scadenza il primo di luglio. In pratica, Porto Rico è in bancarotta e alcuni fondi creditori hanno già intentato cause legali.
Il problema è che all’isola non possono essere applicate le procedure di default già utilizzate per altri stati della Federazione, perché Porto Rico non è uno stato ma un territorio degli Stati Uniti. Come tale, è solo associato agli Stati Uniti nel cosiddetto commonwealth e ha governo, parlamento e ordine giudiziario autonomi. I suoi cittadini sono formalmente cittadini americani, ma non possono votare né per il parlamento americano, né per il presidente, anche se possono partecipare alle primarie.
Accanto alla crisi finanziaria è in corso una pesante crisi economica che sta causando gravi difficoltà alla popolazione locale, accelerando il processo di emigrazione già in corso da alcuni anni. Secondo il Pew Research Center, nell’ultimo decennio ha già lasciato il territorio almeno il 9% dei suoi abitanti e l’Istituto di Statistica portoricano sottolinea che negli ultimi quattro anni sono emigrati circa 12mila professionisti. Di fronte a questa situazione, all’inizio di aprile il Senato portoricano ha approvato una legge che, per impedire l’interruzione dei servizi essenziali ai cittadini, consente fino a gennaio la moratoria nei pagamenti dei debiti, in attesa di un intervento di Washington. Il governatore Alejandro Garcia Padilla ha dichiarato di non essere disposto a chiudere le attività del governo “per pagare i notevoli profitti degli hedge fund, che hanno comprato i titoli con un grande sconto dopo che la crisi è iniziata”. E si comincia a parlare di possibili azioni contro istituzioni finanziarie che hanno scaricato i rischi sui risparmiatori. A quanto pare, tra Stati Uniti e Porto Rico si sta riproponendo la stessa tragica sceneggiata già vista tra Ue e Grecia.
L’intervento di Washington è condizionato dal fatto che il Congresso è a maggioranza repubblicana ed è nota l’avversione di questo partito a interventi a sostegno del debito pubblico “con i soldi dei contribuenti”. Tuttavia, a metà maggio,una commissione della Camera dei Rappresentanti ha approvato il Puerto Rico Oversight Management and Economic Stability Act, una proposta di legge sostenuta dall’amministrazione Obama e dai leader sia Democratici che Repubblicani per cercare di risolvere il problema. Il Promesa, acronimo provocatorio della proposta, “promette” la soluzione attraverso la costituzione di un comitato di sette persone nominate dal Congresso e da Obama, che avranno amplissimi poteri sulle questioni economiche e finanziarie. In pratica un vero e proprio commissariamento di Porto Rico, che ha suscitato reazioni molto aspre, con l’accusa di voler riportare l’isola alle preesistenti condizioni di colonia completamente dipendente dagli Usa.
La proposta deve ora passare al voto della Camera e poi del Senato, ma incontra resistenze all’interno del Partito Democratico, malgrado la sua leadership, compresa la candidata Hillary Clinton, faccia presente che rappresenta l’unica via per avviare a soluzione la crisi. L’altro candidato democratico, Berni Sanders, è invece fortemente contrario ed ha provocatoriamente chiesto se i democratici sono “con i lavoratori di Porto Rico o con Wall Street e il Tea Party”.
Questa vicenda riporta al centro dell’attenzione la questione degli ispanici negli Stati Uniti, problema centrale soprattutto nella campagna elettorale di Trump. Ora il problema è costituito principalmente da altri latino-americani, come i messicani, ma la questione del default riporta alla ribalta i portoricani, come ai tempi di West Side Story, il musical e poi film di successo degli anni 50 e 60. C’è da sperare che, a differenza dei Capuleti e Montecchi e dei loro emuli americani, Stati Uniti e Porto Rico addivengano a un accordo prima della tragedia e che ciò sia possibile anche nei confronti del vicino Messico.
Vi è un ultimo paradosso da segnalare relativo a questa “strana” campagna presidenziale. Il Partito Repubblicano è il più duro nell’affrontare il problema dell’immigrazione, in particolare latino-americana, eppure tra i candidati che si sono opposti fino all’ultimo a Trump vi sono Cruz e Rubio, entrambi di ascendenza cubana, mentre non vi è traccia di ispanici nelle liste del “più aperto” Partito Democratico.