L’attenzione doverosamente centrata sul “fronte attivo” del Medio Oriente tende a far passare in seconda linea quanto succede sul “fronte latente” del Pacifico, in particolare sulle tensioni tra la Cina e buona parte degli Stati vicini. La politica di rivendicazioni territoriali messa in atto da Pechino sta causando gravi preoccupazioni al Giappone, che ha dato il via per la prima volta dalla fine della guerra a un piano di riarmo, e a diversi altri governi, come quello vietnamita
Acquista, quindi, un particolare significato la visita alla fine di maggio di Obama ad Hanoi, prima del G7 in Giappone e della sua visita a Hiroshima, che ha cancellato definitivamente l’embargo sulla vendita di armi che durava dal 1975.
Il Vietnam è tuttora soggetto a un regime comunista di stampo totalitario e lo stesso Obama durante la sua visita ha sollevato il problema dei diritti umani. Tutto ciò, però, non ha fermato l’accordo, che potrebbe portare anche alla possibilità per gli Stati Uniti di utilizzare il porto nella Cam Ranh Bay, strategico se la situazione con la Cina dovesse precipitare. I timori vietnamiti, e americani, nei confronti della Cina e delle sue installazioni militari nelle isole artificiali del Mar Cinese Meridionale sono alla base di questo accordo e hanno portato Obama ad accantonare le critiche delle organizzazioni per i diritti umani.
La violazione dei diritti umani è un aspetto che accomuna il Vietnam agli altri due Stati, l’Iran e Cuba, con i quali Obama ha firmato accordi storici in questo ultimo scorcio del suo mandato. Ma vi è un altro elemento comune: tutti e tre i Paesi citati hanno significative relazioni con la Russia e, almeno a breve termine, non paiono avere intenzione di sostituirle con rapporti altrettanto stretti con gli Usa. Il che ripropone la questione della ragionevolezza della politica ostile di Obama verso la Russia, perché tutti tre i casi predetti, cui si può aggiungere la vicenda siriana, dimostrano la convenienza di una politica concordata tra Washington e Mosca. Anche la tragedia ucraina probabilmente avrebbe potuto essere evitata se si fosse seguita fin dall’inizio la strada dell’accordo invece che quella del braccio di ferro.
Questa politica rischia di portare a una strumentale intesa tra Russia e Cina, non particolarmente gradita a Mosca e deleteria per il mantenimento della pace globale. Dopo la guerra con gli Stati Uniti, il Vietnam ha sempre gravitato nell’area sovietica piuttosto che in quella cinese, un’alleanza che, come detto, dura tuttora.
Il Paese asiatico sta diventando molto interessante anche da un punto di vista economico e questo è un altro elemento alla base del recente accordo, pur con qualche problema proprio sotto il profilo delle forniture militari. Le forze armate vietnamite sono state finora totalmente dipendenti dalla Russia e continueranno ad esserlo per un tempo non breve. Tuttavia, la tendenza del governo è di cominciare a differenziare i propri fornitori e si aprono, anzi si sono già aperte, con la cancellazione parziale dell’embargo nel 2014, buone possibilità anche per l’industria degli armamenti americana.
Gli accordi con Stati non democratici come il Vietnam, l’Iran, Cuba, il sostegno all’Arabia Saudita o la sostanziale indifferenza per la deriva autoritaria della Turchia di Erdogan, sono prova della capacità di Realpolitik dei governi americani. Quando non decidono di esportare la democrazia con le armi, o sobillando rivoluzioni più o meno colorate, incuranti delle conseguenze.