Il puzzle libico, dopo la riconquista di Sirte da parte delle milizie fedeli al governo di unità nazionale di Fayez al-Sarraj, sembra parzialmente ricomporsi. In Tunisia, nel recente congresso del partito islamista Ennahda, il leader Rachid Ghannouchi ha annunciato una svolta importante, “uscire dall’islam politico” per entrare nell’era della “democrazia musulmana”, per usare le sue parole. 



Possiamo iniziare a tirare un sospiro di sollievo, almeno nel Nord Africa? Per rispondere a questa domanda è necessario non limitare il nostro sguardo ai due paesi delle primavere arabe ma allargarlo all’intera regione. Guardando solo un po’ più ad ovest vedremmo un paese, attualmente dimenticato dai media, che sta attraversando una delle fasi più delicate della sua storia recente, dalla cui traiettoria potrebbe dipendere anche la stabilità dei paesi vicini.



L’Algeria è un gigante solo apparentemente addormentato. Dal 1999 il paese è governato da Abdelaziz Bouteflika, con lo schema tipico di molti regimi nordafricani e mediorientali. Tutto il potere è accentrato nelle mani dell’entourage presidenziale. Nell’esercito e nella società civile resta in piedi solo chi giura lealtà assoluta al suo “clan”. A maggior ragione in un paese dove l’elemento politico è totalmente fuso con quello militare. In queste condizioni le istituzioni sono paralizzate, la corruzione a livelli altissimi, così come la disoccupazione. Scenario molto simile a quello che ha portato alla primavera araba egiziana o tunisina. Si potrebbe obiettare che l’Algeria ha avuto le sue rivolte arabe già nel 2010 e il fatto che sia riuscita a spegnerle ha fatto chiudere agli osservatori ogni dubbio sulla stabilità del paese, facendo dell’Algeria l’eccezione felice nel prisma comparativo, spesso fallimentare, delle primavere arabe. Allora le rivolte furono sedate in tempi brevi e senza grossi spargimenti di sangue per almeno due motivi. In primo luogo, con un’economia che si regge per circa il 95% sulle esportazioni di greggio, l’Algeria è un rentier State e come tutti i rentier dell’area si è trovata a disporre di una grande ricchezza la cui redistribuzione è stata fondamentale per garantire la stabilità del regime. Per placare il dissenso sociale il governo è intervenuto con elargizioni rese possibili dagli ingenti proventi petroliferi. In secondo luogo, durante le manifestazioni di piazza, ben pochi ad Algeri chiedevano la testa del leader, come accaduto invece in Egitto e Tunisia. Troppo fresco era il ricordo del terribile conflitto degli anni 90 e quindi la paura della “deriva islamista”. 



Ora però le cose potrebbero cambiare. Abdelaziz è molto malato. Fino a poco tempo fa la notizia era stata abilmente nascosta dal suo entourage che aveva dosato le apparizione del vecchio e malandato presidente che, con il solito plebiscito bulgaro, nel 2014 è stato riletto per il quarto mandato. 

Pochi mesi fa però le immagini di Bouteflika quasi incapace di parlare, alla visita del primo ministro francese Manuel Valls, hanno fatto il giro del mondo causando imbarazzo per le precarie condizioni del leader ma anche preoccupazioni per il futuro del paese. Si potrebbe dire che l’ultimo rais sia tenuto in vita dal suo clan che sa bene che, essendoci il vuoto dietro di lui, se crolla lui crolla tutto il sistema. Difficilmente dunque potrebbe esserci un golpe “medicale” così come accadde ad Habib Bourghiba in Tunisia, esautorato negli anni ottanta da Ben Ali. Più plausibile ipotizzare una lotta per la sua successione che potrebbe vedere diversi protagonisti tra cui alcuni generali esautorati o esponenti della sicurezza e dell’intelligence rimossi dall’incarico. Di recente, infatti, il Dipartimento dell’Intelligence e della Sicurezza (Drs), che negli ultimi 25 anni ha permeato tutti i settori della società, della politica e della difesa, è stato sostituito dalla Direzione degli Affari per la Sicurezza. Una “manovra” — di cui alcuni dubitano il presidente sia a conoscenza — considerata di facciata e funzionale a liquidare alcuni personaggi scomodi come il generale Mohammed Mediène. 

Non va poi sottovalutato lo spauracchio del terrorismo islamista che per molti anni ha rovinato il sonno degli algerini. Sono sempre più frequenti gli allarmi di cellule jihadiste nel paese, soprattutto nelle zone al confine con la Tunisia e la Libia. Secondo il ministero della difesa algerino da inizio anno sono stati uccisi quasi un centinaio di miliziani affiliati al gruppo di Al Qaeda nel Maghreb islamico. Gli scontri tra estremisti ed esercito sono all’ordine del giorno. Come se non bastasse, i sussidi elargiti dallo Stato — grazie anche alla ricchezza di gas e petrolio — che hanno sedato la piazza algerina nelle rivolte arabe sono agli sgoccioli a causa del crollo del prezzo del greggio. In uno scenario del genere, con una disoccupazione giovanile che sfiora il 30% e con il fondamentalismo ancora alle porte di casa, una crisi, stavolta, potrebbe non avere le fortune del 2010. 

Se così fosse l’Algeria, con circa 40 milioni di abitanti, un territorio di quasi 2.400.000 chilometri quadrati che si affaccia sulle coste del mediterraneo, che confina con la Tunisia e condivide circa 1000 chilometri di confine con la Libia, sarebbe una bomba capace di sconvolgere l’intera regione.