Due pensatori così divergenti fra di loro come il romanziere tedesco e filosofo della politica Ernst Jünger (1895-1998) e il filosofo americano del linguaggio e saggista politico Noam Chomsky hanno parlato — in epoche e modi diversi — dell’apparato statale come di una creatura che guarda alla sua stessa popolazione in quanto potenziale avversario, e che ha bisogno soprattutto di mantenerla in uno stato di paura. Iperbolico? Forse (ma il vero pensiero,  a differenza del bla-bla-bla, si nutre anche di iperboli). Allarmistico? Non direi, in un momento in cui le grida d’allarme, soprattutto da parte dei politici (ma anche di tanti giornalisti) si moltiplicano nelle più varie direzioni.



D’altra parte: paura non è uguale a terrore; e non ogni forma di terrore è terroristica (anche se ovviamente ogni forma di terrorismo si nutre di terrore). Mentre scrivo non è ancora chiaro se il massacratore della discoteca in Florida (il giovane afgano-americano a cui non posso rifiutare la pietà dovuta a ognuno che muore, ma a cui nego l’onore di nominarlo) fosse un micro-protagonista del terrore o un vero e proprio terrorista. Ciò che peraltro sembra chiaro è che questo, come gli innumerevoli gesti simili, contiene una certa sua terribile dialettica: da un lato c’è la coltre della paura (che può anche risultare tiepida e confortevole) sotto la quale ogni stato protegge e controlla a modo suo la propria popolazione; e dall’altro ci sono i gesti più o meno isolati in cui i rappresentanti di entità semi-statali (o addirittura singole persone scatenate) lacerano ogni tanto questa coltre. Ovvero: risposte patologiche a una “normalità” malata.



E qui non si tratta solo della paura nei confronti della violenza armata. Tutti i discorsi che oggi sono dominanti, sia nell’area governativa sia in quella anti-governativa (dunque, su tutta la gamma della “ragion di stato”), sembrano funzionare soprattutto così: quale parte politica riuscirà a spaventare maggiormente la popolazione, dunque a persuaderla a schierarsi sotto questo o quell’altro mantello protettivo, giungendo così a esercitare maggior controllo sulle leve dello stato? Dibattito sul Brexit: paura contro paura; elezioni politiche dappertutto (compresa ovviamente l’Italia): paure contro paure; e così via.



In un suo romanzo del 1943, The Ministry of Fear (Il ministero della paura), che si svolge durante il “Blitz” nazista su Londra, il grande romanziere inglese Graham Greene (il quale fra l’altro in quel periodo lavorava per i servizi segreti) descrive un uomo solitario, traumatizzato dal suo passato e disorientato che, vagando per Londra bombardata, va a incappare in una rete di insospettabili spie naziste. Non è uno dei migliori romanzi di Greene (anche se il suo linguaggio e la sua struttura funzionano a un livello ben più alto di quello del genere letterario analogo così come esso è praticato oggi) — ma non è questo ciò che importa qui.

Questa narrazione resta un bell’esempio del gioco delle paure, il gioco in cui diventa difficile distinguere il gatto dal topo: la paura del protagonista, appena uscito di prigione e sospettato di un crimine, dunque impossibilitato a ricorrere al suo governo per proteggerlo dalle spie naziste che vogliono eliminare lui, che è diventato per loro scomodo da quando ha scoperto qualcosa; la paura sulla base della quale operano queste spie anti-inglesi; e infine la paura di queste stesse spie, quando a un certo punto si rendono conto che è intorno a loro che la rete si sta stringendo. Insomma, un mondo post-Hobbes e post-Machiavelli: paura di tutti contro tutti. E’ mai esistita o mai esisterà, una forma statale che possa fare a meno del gioco (del ricatto) della paura? Meglio non tentare una risposta, ma un’ipotesi la si può azzardare.

Un’ipotesi sul barlume di speranza che può venire dalle forze della debolezza: le attività per così dire sotto-statali — le azioni di quelli che guardano alla storia (alla politica, allo stato) dal basso. Sono le solite vecchie attività che  sembrano a prima vista consunte e che rischiano l’ironia: la pazienza della diplomazia, il volontariato, la preghiera, le forme di consolazione (e auto-consolazione) che coltivano la pace nelle forme più spicciole della vita quotidiana, e simili. Per esempio (e per tornare infine all’orrore di Orlando), un grosso problema dell’attuale dibattito a risvolti elettorali sulla diffusione spaventosa delle armi da fuoco in Usa, è che esso sembra giocare le sue carte su due paure contrapposte: da un lato, la paura che porta ad armarsi fino ai denti (c’è un Intruso Minaccioso, là fuori!); e dall’altro, la paura del Frankenstein delle armi da fuoco (c’è un Mostro Fuori Controllo, là fuori!). E non è poi molto utile rassicurarsi con la considerazione — peraltro ben fondata — che la seconda paura esprime un più alto livello (un livello europeo) di civiltà.

Forse, per riguadagnare qualche palmo di terreno (è bene non essere troppo ottimisti) alla civiltà si dovrebbe insistere sul “pro” piuttosto che sul “contro”: sugli strumenti della costruzione umana, dalle parole ai materiali architettonici; e sul sollievo dato dall’esercizio della mitezza. “Let kindness know no bounds” (Fate che la gentilezza non conosca limiti), è un’esortazione dei Quaccheri: che continua a risuonare in tante domeniche americane, e che ancora commuove nella sua nuda semplicità.