Il succo di tutte le deplorazioni dell’Economist sul leave di Brexit è che ora qualche coccio la Gran Bretagna lo potrà riattaccare se “il prossimo primo ministro proverà a negoziare con la Ue un accordo come quello della Norvegia”, un po’ di mercato unico in cambio di un po’ di libera circolazione delle persone (anche un po’ di migranti-profughi-rifugiati, certo). Ci sbaglieremo, ma c’è l’eco – rigorosamente anglofona – di quanto si ascoltava e si leggeva nel settembre 2008, all’indomani del crack di Lehman Brothers. What next? What can we do? Che fare?
Ricompriamo 750 miliardi di “titoli tossici” delle banche di Wall Street con i soldi dei contribuenti Usa: pronti, via. Un paio di sedute malpanciste del Congresso e del Senato e si parte. A far pagare il conto “agli altri”: anche ai pensionati delle contee britanniche che otto anni dopo hanno votato in massa pro-uscita dalla Ue. O a spese del 40% dei giovani disoccupati italiani, naturalmente convinti di essere esclusivamente vittime della Germania e della sua ossessione eurocratica per le regole. Oppure ancora: il conto arriva a sorpresa alle frontiere vecchie e nuove della Eu-28(-1) sotto forma di orde di profughi siriani cacciati verso l’Europa dal nuovo disordine petrolifero creato dagli Usa in Medio Oriente. Oppure dallo spauracchio Isis agitato sulle coste libiche, appositamente sguarnite della stabilissima Jamahiriya del colonnello Gheddafi. L’importante – scrivevano gli editoriali in italiano del Corriere della Sera – era che “la politica non torni ad allungare le mani sul mercato”.
Dunque: Brexit si cura con un “accordo norvegese”, tutto può aggiustarsi, concentriamoci sul “da farsi”, niente “analisi”, niente sforzi di capire, niente esperienze perché i grossi errori non si ripetano. L’importante è che la City resti la piattaforma finanziaria d’Europa (ma ben fuori dall’euro). Poi, tra qualche settimana, la sovrana del Regno Unito potrà pure far visita alla London School of Economics e fare la ramanzina: “Ma come mai nessuno ha capito quello che stava succedendo”?
Perché – quasi otto anni dopo il crack Lehman – la più grande banca britannica (la Royal Bank of Scotland) è ancora di proprietà dello Stato, ma i banchieri speculano e guadagnano come prima? Fra l’altro lo fanno col “denaro gratis” formalmente prestato dalle banche centrali per stimolare la ripresa, il Pil l’occupazione, i redditi delle famiglie, Che però poi non se ne danno per convinte.
Perchè un premier quarantenne di Sua Maestà si gioca l’adesione quarantennale della Gran Bretagna alla Ue ai dadi di una tornata elettorale interna? Perché anticipa di un anno un referendum non obbligatorio? Cos’avrebbe detto o scritto Walter Bagehot, che a metà ‘800 decretò per sempre il prestigio vittoriano e imperiale dell’Economist? Lui che descrisse nel modo più lucido “la costituzione britannica” si sarebbe limitato a un ipocrita endorsement finale pro-remain? Oppure avrebbe spiegato alla classe dirigente britannica – con lo stesso cipiglio usato con quelle del Congtinente – quello che si stava scollando e frantumando fra la più apolide della metropoli europee e la profondità non-europea delle isole britanniche?
Intelligence è parola squisitamente britannica: sintetizza una capacità peculiare di raccogliere informazioni e di elaborarle razionalmente in tempo reale per costruire il migliore dei mondi possibili ed evitare i peggiori. L’empirismo e il pragmatismo al loro meglio: Oxbridge che studia il greco antico ma disegna il Fondo monetario internazionale. E dal liberalismo britannico – nato un secolo prima della Rivoluzione francese – è nata la democrazia: “il peggiore dei regimi possibili salvo tutti gli altri”, diceva Winston Churchill, vincitore di Hitler spedito a casa il giorno dopo da libere elezioni. Non da una figuraccia epocale come quella accusata da David Cameron.
Dentro la “sconfitta per tutti” di Brexit c’è anche la negazione di un’energia culturale. E l’affanno di archiviare tutto e subito come l’ennesimo “incidente di percorso”. Abbiamo visto com’è andata a finire. Non un secolo fa, ma negli ultimi nove anni. L’abbiamo visto sulle isole britanniche: dalle code dei depositanti agli sportelli di Northern Rock nell’estate 2007 a quelle dei londinesi (non degli ateniesi) che cercavano di cambiare sterline in euro alla vigilia del referendum. Alla faccia dei martellanti sondaggi pro-remain propagandati il giorno dopo a seggi aperti. Non sappiano se la baronessa Margarteh Thatcher sorriderebbe o s’infurierebbe. Di certe la Britannia che lei ha inaugurato nel 1979 – un anno prima dell’elezione alla Casa Bianca di Ronald Reagan – è finita. Non è una buona notizia per nessuno. Ma stavolta non è colpa degli altri.