Anzitutto i risultati. Nel Regno Unito il 52% han votato per l’uscita dall’Unione Europea, contro il 48%, con uno scarto di oltre 1,2 milioni di voti e un turnout del 72% degli aventi diritto. Il risultato è ribaltato rispetto a quello del 1975, quando la maggioranza (con il 67% a favore su un turnout del 65%) si pronunciò a favore della permanenza del Regno Unito nel mercato comune dell’allora Comunità economica europea. Il ribaltamento riguarda non solo il risultato finale, ma anche quello dei suoi componenti, con l’Irlanda del Nord e la Scozia allora contrarie al progetto europeo, ora invece per la maggioranza favorevoli al permanere del Regno Unito nella Ue.
La storia del processo di integrazione europea è anche storia di referendum nazionali significativi, come quelli della Danimarca e dell’Irlanda. La prima rifiutò il Trattato di Maastricht, con il 51% (giugno 1992), per poi accettarlo con un secondo referendum l’anno successivo (57%, maggio 1993). La seconda “fermò” il Trattato di Nizza (con il 54% dei voti, a giugno 2001), prima di approvarlo in un secondo referendum (63%, ottobre 2002). Più noti i referendum di Francia (55%) e Paesi Bassi (62%), che a metà 2005 hanno impedito l’entrata in vigore del cosiddetto Trattato Costituzione (il Trattato che istituisce una costituzione per l’Europa), ma non la sua resurrezione, dopo un’operazione di chirurgia sostanzialmente estetica, con l’adozione e successiva entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che attualmente governa la vita dell’Unione, anche in quest’ultimo caso a seguito di un nuovo duplice referendum irlandese (con il 53% contrari, a giugno 2008, e il 67% a favore, ad ottobre 2009).
Fin qui dunque referendum nazionali e processo di integrazione europea hanno proceduto, per così dire, mano nella mano, a suon di reciproci aggiustamenti; inevitabili e fisiologici, se si vuole, perché l’Europa ha scelto e ad oggi sempre confermato che le modifiche dei Trattati richiedono il consenso di tutti i suoi membri e ciascuno di essi addiviene ad esprimerlo secondo le proprie regole costituzionali. La Brexit è un’altra cosa, perché per la prima volta è un referendum non sull’entrata in vigore di un Trattato di riforma (che in caso di esito negativo, lascia in vigore i Trattati esistenti), bensì sulla permanenza o l’uscita tout court di uno Stato membro dall’Ue.
Il recesso volontario e unilaterale di un paese dall’Unione europea è ora previsto all’articolo 50 del TUE (Treaty on European Union); si tratta di una novità introdotta dal Trattato di Lisbona e mai utilizzata. La decisione di un Paese di recedere non produce effetti automatici: tale “intenzione” deve essere notificata dal governo interessato al Consiglio europeo, il quale presenta i suoi orientamenti per la conclusione di un accordo volto a definire le modalità del recesso di tale paese. Tale accordo è concluso a nome dell’Ue dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. I trattati cessano di essere applicabili al paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o due anni dopo la notifica del recesso. Il Consiglio può decidere di prolungare tale termine.
Quali dunque gli scenari? Sul piano interno, il primo ministro Cameron ha per ora rinviato l’avvio formale dei negoziati previsti dall’art. 50 TUE ad ottobre, quando avranno effetto le sue dimissioni e, verosimilmente, l’insediamento del suo successore. Fra le più complesse questioni da affrontare, certamente la prevalenza del “no” alla Brexit in Scozia (che potrebbe chiedere un nuovo referendum sulla propria uscita dal Regno Unito) e nell’Irlanda del Nord (le cui ragioni storiche o geografiche domandano particolare attenzione nella regolamentazione dei rapporti con l’Ue, a cominciare dalla circolazione delle merci e delle persone al confine con l’Irlanda).
Sul piano dei rapporti con l’Ue è anzitutto da vedere se e quale effetto domino potrà verificarsi in Paesi come la Danimarca, ma non solo. Quale interlocutore troverà poi il governo del Regno Unito al momento della effettiva negoziazione dell’accordo di recesso? La risposta è tutt’altro che scontata per le sempre più gravi divergenze fra i membri dell’Unione a fronte delle ormai ricorrenti crisi/emergenze, siano esse di natura economica, terroristica o migratoria.
I Paesi terzi stanno con il fiato sospeso per l’instabilità dei mercati finanziari e monetari e i possibili rischi per gli investimenti, ma certamente qualcuno (Russia) ha già tirato un respiro di sollievo.