Molte dichiarazioni di esponenti dell’Ue sull’esito del referendum in UK sembrano andare al di là di una dura critica a un risultato ritenuto fortemente negativo, tendendo ad assumere toni di vera e propria rappresaglia. Le accuse agli inglesi di gretto nazionalismo e egoistico isolazionismo assumono accenti che ricordano la “perfide Albion” dei francesi, definizione poi rilanciata da Mussolini, anche se non si è ancora giunti al “Dio stramaledica gli inglesi” della radio fascista. Reazioni ben diverse da quelle riservate al referendum del 1975, quando i britannici decisero di rimanere nella Comunità Europea: allora il referendum fu considerato una elevata modalità di espressione popolare, ora un macroscopico errore, nella migliore delle ipotesi.
Da Bruxelles arrivano perciò veementi inviti ad iniziare al più presto e a concludere nel più breve tempo le trattative per il distacco del Regno Unito dall’Unione Europea, dimostrando così una scarsa conoscenza di uno dei trattati che regolano la stessa Unione, il Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009. L’Articolo 50 del Trattato prevede che ogni Stato membro possa ritirarsi dall’Unione secondo le sue procedure costituzionali e che la decisione debba essere notificata al Consiglio Europeo. Da questo momento possono partire le trattative per definire le condizioni dell’uscita dall’Unione e i rapporti successivi tra Stato uscente e Unione. L’accordo deve essere preso a maggioranza qualificata del Consiglio e approvato dal Parlamento Europeo. L’applicazione del Trattato allo Stato uscente cessa con la firma di questo accordo, o comunque entro due anni dalla notifica della decisione, salvo che Stato e Consiglio non decidano un prolungamento dei termini. Dalla lettura dell’articolo non traspare alcuna fretta né intento punitivo nei confronti del “reprobo” che ha osato lasciare l’Unione, rispettandone peraltro i trattati.
Pertanto, tutte le dichiarazioni che stanno piovendo da Bruxelles e dintorni sono da considerare semplici — da vedere quanto appropriate — dichiarazioni personali di personaggi che non hanno nessun potere, se non mediatico. Una cosa che sembra del tutto assente nel dibattito, non nell’Uk peraltro, è che il referendum del 23 giugno non ha potere vincolante e il governo potrebbe proporre al Parlamento di ignorarlo e di mantenere l’adesione all’Ue. Questa eventualità sembra al momento del tutto improbabile, ma finché il Parlamento del Regno Unito non deciderà di far propri gli esiti del referendum e il governo britannico non comunicherà tale decisione a Bruxelles, come da articolo 50, nulla è ancora tecnicamente accaduto e questa sorta di caccia alle streghe suona molto poco democratica.
Tanto più che nel Regno Unito la situazione è ancora in movimento, come dimostra la petizione per un secondo referendum che, avendo con il suo milione e mezzo di firme superato di gran lunga la soglia minima delle 100mila adesioni, dovrà essere esaminata dalla Camera dei Comuni. La petizione pone due limiti piuttosto restrittivi perché l’esito sul remain/leave possa essere definitivo: una maggioranza del 60% e una quota di votanti del 75% (in questo referendum è stata del 72%). Il Comitato che deve decidere sulla ammissibilità di una petizione si riunirà martedì prossimo.
Tuttavia è molto difficile che si possa sospendere l’esito del referendum del 23 giugno e indire a breve termine una nuova consultazione, anche se qualche commentatore britannico non esclude che ciò possa avvenire in futuro con un nuovo governo e un nuovo Parlamento. Il Regno Unito potrebbe in tal caso riavviare il processo di adesione all’UE in base al Trattato di Lisbona e, se ciò accadesse realmente, sarebbe interessante vedere se Bruxelles se la sentirà di mantenere i toni attuali. Come quelli di Jean-Claude Juncker, l’ineffabile presidente della Commissione Europea, che ha affermato non esservi nessun motivo per aspettare ottobre, la data entro la quale dovrebbe essere nominato il successore di Cameron, perché a lui piacerebbe “iniziare subito”. Forse si sta perdendo anche il senso del ridicolo.