— Il monte Ararat, quello di Noè e dell’arca, è di fronte ai due uomini anziani. Uno è incappucciato in nero, fino ai piedi, l’altro è bianco. Di spalle sembrano avere quasi la stessa stazza. Sono stati affianco, sempre, negli ultimi tre giorni e ora lo sono ancora una volta: guardano insieme oltre il confine, verso quel mito biblico che si staglia immobile, bianco di neve anche in estate dichiarata. Luogo del desiderio e dell’anima, fulcro della vita di un popolo e di un’intera nazione. Terra persa ma instancabilmente amata. 



Guardano insieme verso l’Ararat, ripercorrono ciascuno a suo modo “la storia unica, intrisa di fede rocciosa e di sofferenza immane” dell’Armenia. Uno arriva da pellegrino, l’altro da erede e guida di un popolo martire. Il silenzio domina, insieme al frullare delle ali di colombe. E’ il modo lirico e insieme simbolico per raccontare un desiderio di pace condiviso, costruito nelle ore passate insieme sotto lo stesso tetto nella città sacra di Etchmiadzin. 



Memoria e profezia si concentrano al monastero di Khor Virap, per l’ultimo atto dell’itinerario spirituale ed ecumenico compiuto da Papa Francesco nel primo lembo di Caucaso visitato. Gregorio l’Illuminatore, che per noi è l’armeno raccoglitore di devozione nei vicoli di Napoli, ha fondato qui la Chiesa apostolica. Le ha dato stabilità e robustezza istituzionale. Nel 301, ben 12 anni prima dell’Editto di Tolleranza di Costantino, ha convinto un re, feroce per giunta, Tiridate III, a fidarsi del Dio cristiano e dei suoi seguaci. E’ tutto quello che basta agli armeni per sentirsi prediletti e amati, ebrei d’Oriente per analogia di destini e persecuzioni. 



Eppure le mura del V secolo, il pozzo in cui Gregorio passò 13 anni della sua vita cibandosi solo del pane lanciato da una vedova, il paesaggio mistico che circonda il sito più caro agli armeni non sono nulla in confronto a quel monte che sorveglia la storia del paese dei melograni. Si racconta che in uno dei tanti infruttuosi negoziati tra Turchia e Armenia, un diplomatico di Ankara accusò il suo interlocutore di Yeravan di usare impropriamente un simbolo che non gli apparteneva. La sagoma dell’Ararat, infatti, campeggia sulla bandiera armena, come sulle bottiglie di cognac, sulle fabbriche sovietiche e sui souvenir delle bancarelle. E’ l’icona rubata al mito e fissata sulla carne di ogni armeno. E’ proprietà esclusiva di ogni figlio della Chiesa apostolica, eppure lontana oltre un confine bollente. 

Pare che la sagacia armena produsse una risposta fulminante. “Le stelle e la luna sono sulla vostra bandiera — sentenziò sornione il diplomatico — e anche loro non vi appartengono”. Forse bisognerebbe riflettere sul fatto che nulla in fondo ci appartiene sebbene tutto sia profondamente nostro. Persino la memoria più sacra non va considerata dono esclusivo. 

Lo ha ripetuto spesso Papa Francesco al popolo che la coltiva con determinazione e testardaggine. E lo ha ridetto anche ieri, mentre si accingeva a lasciare il Caucaso per far ritorno in Vaticano. In corner aveva messo a segno l’ultimo colpo: la firma della dichiarazione congiunta che alla vigilia del viaggio sembrava persa, dissolta dalle impossibili pretese di condanne e dagli umori turchi. 

Un testo rigoroso, essenziale, in cui si parla di ecumenismo del sangue e di persecuzioni moderne, del primo genocidio del XX secolo e delle stragi di innocenti che si consumano oggi nei deserti della Siria. Di desiderio di pace e di rispetto per le differenze religiose, di umanità e solidarietà. Ma soprattutto si esprimeva la volontà di percorrere la via della riconciliazione della fraternità, uniti, come fratelli. Cristiani non assimilati, certi delle proprio storie, ma vicini nel cammino verso la santità. Una dichiarazione non più attesa che è arrivata come un fulmine, segno della capacità persuasiva di Francesco. E’ la sua testimonianza, la sua concretezza, la sua trasparente evangelicità ad ottenere ciò che sembra impraticabile. Ha convinto Karekin II, Catholicos degli Armeni, a firmare un testo che lo impegna a guardare all’Ararat come ad una meta, più che come una proprietà. La tappa conclusiva di un percorso di riconciliazione con l’eterno nemico turco, dove la memoria, sebbene colma di orrore e di violenza, diventa gravida di pace. E lo ha fatto nell’unico modo possibile. Mettendosi in cammino con lui verso la cima innevata.  

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