C’è qualcuno che vuole davvero la sconfitta definitiva dell’Isis, a parte le popolazioni direttamente colpite dalla tragedia che sta sconvolgendo il Medio Oriente? Sono certamente molti i nemici dello stato islamico, ma quanti sono realmente interessati alla sua caduta? L’ultimo fatto a conferma della legittimità della domanda è la decisione dell’Ue di prolungare le sanzioni alla Siria e su questo rimando al documentato articolo di Patrizio Ricci. Qui vorrei tentare di analizzare la posizione verso l’Isis dei vari attori sulla scena mediorientale alla luce della suddetta domanda.



Tra i più attivi combattenti contro il califfato sono senza dubbio da ascrivere gli sciiti iracheni e siriani contro i quali, come contro cristiani e yazidi, si concentra l’odio dei fondamentalisti islamici. Altrettanto certo è l’appoggio, diretto e indiretto, dell’Iran, principale Paese sciita nella regione, ma la sua lotta contro l’Isis rientra nel più generale scontro con i sunniti, sottostante ad altri conflitti nell’area, come quello nello Yemen. Da un altro lato, la lotta all’Isis accomuna l’Iran con una parte almeno del mondo sunnita e diventa una plausibile ragione perché il suo intervento venga, obtorto collo, tollerato. Tuttavia, per Teheran ciò che conta è la salvaguardia e il consolidamento della cosiddetta Mezzaluna sciita, dall’Iran al Libano di Hezbollah, passando per le zone sciite dell’Iraq e della Siria. Posta al sicuro quest’area, per l’Iran l’Isis potrebbe anche continuare ad esistere come problema interno dei sunniti.



Strenui combattenti contro l’Isis sono anche i curdi e qui lo spartiacque non è religioso, anch’essi sono sunniti pur non fondamentalisti, bensì etnico. I curdi sono indoeuropei e dalla caduta dell’Impero ottomano stanno tentando di costituire un proprio Stato indipendente non più sotto dominio arabo, come in Iraq e Siria, anche se il maggior nemico alla loro indipendenza non è arabo, ma turco. I curdi stanno infatti combattendo su due fronti, da un lato contro lo stato islamico, dall’altro contro la Turchia. Le aree guadagnate con la loro decisa lotta contro l’Isis stanno rendendo possibile la ricongiunzione del Kurdistan iracheno con quello siriano, avvicinando il sogno di un loro Stato, ciò che preoccupa enormemente il governo di Ankara. L’obiettivo finale della lotta dei curdi non è, quindi, l’eliminazione dell’Isis, ma la conquista della propria indipendenza, per la quale gli ostacoli principali sono rappresentati dalla Turchia e — in prospettiva — dall’Iran, Stati dove i curdi sono minoranze molto consistenti.



Quanto alla Turchia, il governo di Ankara è stato accusato da più parti di aver mantenuto un atteggiamento quantomeno ambiguo verso lo stato islamico, spesso sconfinante in una oggettiva complicità. Per Erdogan, l’Isis ha agito in Iraq e Siria come un elemento di destabilizzazione tutto sommato funzionale al suo disegno di predominio sulla regione, probabilmente sicuro di poterlo controllare quando fosse divenuto troppo pericoloso. 

Qualcosa sembra essere cambiato negli ultimi tempi ed è da vedere se gli attentati dell’Isis in Turchia sono provocati da un cambiamento di atteggiamento di Ankara o da un ampliamento del fronte da parte dello stato islamico.

Anche l’Arabia Saudita si propone come acerrima nemica dell’Isis, ma ha un curriculum accertato di finanziatrice di movimenti estremisti un po’ dappertutto nel mondo islamico e la sua stessa versione dell’islam non è poi così diversa da quella del califfato. E la destabilizzazione portata dall’Isis nell’area consente a Riyad di presentarsi come garante dell’ordine nell’area, contrastando sia Turchia che Iran. 

Nell’analisi dei rapporti tra Isis da un lato e Turchia e Arabia Saudita dall’altro, si inserisce un ulteriore elemento: la pretesa di rappresentare il fattore autentico di unità del mondo islamico, meglio sunnita, nella regione. Se l’Arabia Saudita si fa forte della sua veste di custode dei luoghi santi dell’islam, Mecca e Medina, e la Turchia di Erdogan si rifà alla funzione unificante dell’Impero ottomano, l’Isis torna alle origine dell’islam politico e religioso autoproclamandosi califfato. Non a caso, all’epoca di questa proclamazione, un’autorità religiosa turca dichiarò che la ricostituzione del califfato poteva avvenire solo in Turchia, dove venne abolito nel 1924 da Atatürk. Questa è forse la vera battaglia in corso, la ricostituzione di un’unità politico-religiosa del mondo sunnita mediorientale, di cui l’Isis è solo la causa scatenante, utile a ciascuno dei contendenti per il raggiungimento del risultato, a patto che non diventi troppo pericoloso.

Anche in questa luce, la decisione dell’Ue risulta drammaticamente disastrosa, avventata, succube o cinica che sia.