“Come in una partita a poker, attraverso il vertice di Parigi la diplomazia europea intende costringere Netanyahu a mostrare le sue vere intenzioni”. Lo spiega Filippo Landi, ex corrispondente Rai da Gerusalemme. Venerdì i ministri degli Esteri di 25 Stati si sono incontrati a Parigi con l’obiettivo di convincere israeliani e palestinesi a riaprire i negoziati. Il presidente francese François Hollande ha invitato le due parti in causa del conflitto a compiere “una coraggiosa scelta a favore della pace”. Ma ai colloqui non hanno preso parte né i negoziatori israeliani né quelli palestinesi.



Il vertice di Parigi ha qualche speranza di successo o nasce morto in partenza?

Non credo che questo tentativo nasca morto in partenza. Il nuovo governo israeliano è stato definito come il governo più a destra della storia israeliana, soprattutto dopo la nomina del nuovo ministro della Difesa, Avigdor Lieberman. L’interesse di Netanyahu è che il suo governo non sia ulteriormente emarginato nella scena internazionale. Nel contempo Netanyahu teme un’iniziativa come quella che si sta svolgendo a Parigi.



Perché?

Gli interlocutori di Parigi nella quasi totalità pongono una richiesta: che l’attuale governo israeliano fermi l’espansione delle colonie. Per questo Netanyahu ha rilanciato dicendo che invece la pace passa dal vecchio progetto presentato nel 2002 al vertice della Lega Araba, noto come “piano arabo”. Quest’ultimo prevede un accordo di pace tra Israele e tutti i Paesi arabi in cambio di un ritiro israeliano sui confini del 1967. Netanyahu ha aggiunto però una condizione: che Israele e Stati arabi trattino i cambiamenti intervenuti dopo il 2002.

In pratica che cosa significa?



Di fatto si dovrebbe accettare che Israele inglobi ampie porzioni dei territori palestinesi. L’espansione delle colonie dovrà essere riconosciuta dai palestinesi, soprattutto per quanto riguarda Gerusalemme Est, la zona di fronte a Betlemme, Nablus ed Ebron. Per Netanyahu questi territori devono essere incorporati in Israele.

Perché Netanyahu si appella al piano arabo?

Il punto politico del richiamo del premier israeliano al piano arabo è l’interlocutore. Netanyahu ritiene di avere stabilito soprattutto con l’Arabia Saudita un rapporto positivo, che gli permetterebbe di trattare con Riyadh per una definizione dei futuri confini palestinesi. Il piano del 2002 viene ricordato oggi perché gli israeliani ritengono che ci siano le condizioni per trattare con una parte consistente del mondo arabo, e in particolare con l’Arabia Saudita. Netanyahu è convinto che gli interlocutori migliori siano l’Arabia Saudita e la Giordania, molto più che la Francia e gli Stati Uniti.

Allora perché, se ritiene che ci siano le condizioni per trattare, Israele continua a espandere le sue colonie?

L’idea di Israele è che, se mai dovesse nascere, il futuro Stato palestinese dovrebbe sottostare a due condizioni. La prima è che ci deve essere contiguità tra Israele e i grandi blocchi delle colonie. La seconda è il totale controllo del territorio e della valle del Giordano da parte dello Stato ebraico.

 

Il piano arabo è compatibile con i colloqui di Parigi?

Di fronte al rifiuto israeliano di partecipare agli incontri di Parigi, una parte della diplomazia europea pensa di fare riferimento nelle conclusioni del vertice proprio al piano arabo. Come in una partita a poker, in questo modo la diplomazia europea chiederebbe a Netanyahu di mostrare fino in fondo quanto aderisca realmente al piano arabo stesso.

 

In che senso?

A Parigi si pensa che Netanyahu sarà presto chiamato a definire quale sia la sua disponibilità reale ad accettare uno Stato palestinese sui vecchi confini del ’67, o se al momento della trattativa non si ritorni alle due condizioni poste finora da Israele che in qualche modo hanno ucciso ogni ipotesi di trattativa di pace. Quello che ne uscirebbe sarebbe infatti uno Stato palestinese a macchia di leopardo, spesso senza un minimo di continuità territoriale dal nord al sud.

 

(Pietro Vernizzi)