Se è vero che la ricostruzione di un paese e la sua stabilità passano anche e soprattutto per una sua ripresa economica, per la Libia non si prevedono ancora tempi semplici.
A più di 5 anni dalle rivolte che hanno defenestrato il rais, l’economia libica è in frantumi. Il Prodotto interno lordo, che nel 2010 era pari a circa 75 miliardi di dollari, oggi è più che dimezzato. E’ l’effetto diretto del drastico calo della produzione del greggio a cui il Pil libico è quasi completamente legato e che oggi è sceso a circa 350mila barili al giorno, quasi un quinto rispetto al 2010. Con il calo dei proventi gli introiti non sono più sufficienti a pagare le spese correnti e le retribuzioni degli statali, l’80% circa della forza lavoro libica. Come se non bastasse, secondo stime della Banca Mondiale, la spesa per gli stipendi è salita del 24-40% sulla spesa pubblica totale soprattutto da quando la maggior parte delle milizie sono state messe sul libro paga dei vari governi. La penuria di liquidità ha costretto la Banca Centrale libica a prelevare denaro dalle sue riserve con conseguenze gravi sulla popolazione. Sempre secondo dati della Banca Mondiale, l’inflazione lo scorso anno è salita al 9,2%, aumento trainato da quello dei prezzi dei beni alimentari (quasi il 14%). Di converso, il reddito pro capite è sceso a meno di 4.500 dollari rispetto ai quasi 13mila dollari del 2012. Oggi, secondo l’Unsmil — la missione dell’Onu in Libia — su una popolazione di poco più di 6 milioni di abitanti, almeno 3 milioni di persone soffrono per le conseguenze della crisi politico-istituzionale e di sicurezza del paese.
Che fare allora per tentare di supportare la ripresa economica della Libia?
Al di là dell’evidenza che qualunque azione dovrà essere preceduta da una preliminare stabilizzazione del contesto politico e di sicurezza, possono essere ipotizzate alcune misure da attuare nel breve, medio e lungo periodo.
In primo luogo, nell’immediato, sarebbe necessario favorire la circolazione di denaro, sotto il controllo della Banca Centrale di Tripoli, ad esempio scongelando alcuni dei beni libici all’estero, con particolare riferimento al Libyan Investment Authority (Lia), il fondo sovrano libico del valore di circa 70 miliardi di dollari, questione ancora pendente sul tavolo dell’Alta Corte di Londra. Vista la persistenza di due “governi” nel paese, però, le istituzioni internazionali dovrebbero poter fornire supporto tecnico e supervisione per evitare decisioni unilaterali che potrebbero aggravare la già critica situazione finanziaria. Di recente, ad esempio, la Banca centrale libica di Beida (che fa riferimento al parlamento non riconosciuto di Tobruk), ha immesso nel mercato quantità di denaro al di fuori dei circuiti bancari tradizionali, mettendo a rischio la capacità della Banca Centrale di Tripoli di gestire la politica monetaria del paese.
Per tamponare l’emorragia libica, poi, sarà necessario riportare la produzione del greggio su livelli ben più elevati di quelli attuali. Questo potrà essere realizzato solo in un contesto di maggiore stabilità e sicurezza la cui realizzazione richiederà non solo di trovare un accordo tra i principali gruppi e milizie che di fatto controllano ancora alcuni giacimenti, ma anche di dare vita ad un sistema unitario per la vendita ed il controllo della produzione. Una buona notizia in questo senso è giunta pochi giorni fa dalla compagnia statale dell’energia libica (Noc) che avrebbe acconsentito alla fusione con la concorrente della Cirenaica con sede a Bengasi e facente capo a Tobruk. Una mossa che potrebbe consolidare ulteriormente la posizione dell’Italia e dell’Eni, soprattutto dopo la visita ufficiale dello scorso giugno, nel quartier generale di Serraj, dell’ad del Cane a sei zampe, Claudio Descalzi.
Infine, in una prospettiva di più lungo periodo, la Libia dovrà affrontare la sfida più grande per la propria economia e, più in generale, per la propria stabilità: risolvere il problema della disoccupazione, soprattutto di quella giovanile, salita oggi al 48% e della “riqualificazione” della forza lavoro. In un suo recente rapporto dal titolo Labor Market Dynamics in Libya: Reintegration for Recovery, la Banca Mondiale sottolinea la necessità di riassorbire nel mercato del lavoro libico i molti giovani combattenti attraverso l’incentivazione di partnership pubblico-privato, capaci di puntare sulla riqualificazione, mediante incentivi alla formazione specialistica soprattutto in alcuni settori “emergenti” quali commercio, servizi, turismo e agroalimentare. Misure che potrebbero essere volte ad incentivare anche l’ingresso delle donne nel mercato lavorativo. Tutto ciò, però, potrà essere realizzato soltanto riformando il sistema libico assuefatto, proprio per la natura di rentier State, ad una struttura totalmente assistenziale fondata sul meccanismo delle sovvenzioni statali, il cui “incancrenimento” unito alla perdurante incapacità di rispondere alle richieste della popolazione ha costituito uno dei detonatori delle rivolte del 2011.