La Gran Bretagna ha un nuovo primo ministro. E questa per il Paese è una buona notizia. Tuttavia, il modo in cui Theresa May è arrivata alla più alta carica di governo ha lasciato l’amaro in bocca a molti tra i 17,5 milioni che hanno votato Leave. Perché la May non è stata eletta democraticamente. Ancora una volta ci sono state delle dimissioni shock con la pro-Brexit Andrea Leadsom che ha deciso di togliersi dalla corsa.



Il ballottaggio tra May e la rivale, in programma tra circa nove settimane, non avrà mai luogo. La base del partito conservatore, che avrebbe dovuto esprimere il proprio voto – e che si dice sia costituita in larga parte da euroscettici – ha perso la possibilità di farlo. Il malcontento è stato espresso dall’opposizione. Il laburista Jon Trickett, i Liberal Democrats e il Green Party hanno chiesto elezioni generali. Per Trickett, parlamentare vicino al leader Labour Jeremy Corbyn, è “cruciale” avere un “primo ministro democraticamente eletto”. Ma la May ha escluso una simile possibilità.



Ancora una volta quindi un Brexiteer di primo piano si ritira. Boris Johnson, Nigel Farage, Michael Gove (che non ha avuto voti sufficienti da parte dei parlamentari conservatori, ma che probabilmente avrà un ruolo nel nuovo governo) e Andrea Leadsom. Fino a sabato scorso Leadsom sembrava molto sicura di sé e ottimista. Si diceva che avesse dalla sua il vantaggio di essere un volto nuovo e un’autentica Brexiteer (mentre la May ha fatto, anche se con riluttanza, campagna per rimanere in Europa). Inoltre, poteva vantare nel curriculum esperienze di lavoro nella City (anche se pare abbia, un po’ maldestramente, esagerato alcuni dei ruoli ricoperti).



Ma proprio il fatto di essere “nuova” ha pesato sulla sua corsa alla premiership. Il fatto di comportarsi, in certe situazioni, un po’ da novizia, di mostrare una certa inesperienza con i media, ha giocato contro di lei e le ha attirato numerose critiche. La polemica è stata innescata, nel fine settimana, da un’intervista che la Leadsom ha rilasciato al The Times di Rupert Murdoch. Incalzata dalla giornalista sulle differenze tra lei e Theresa May, l’ex ministro dell’Energia ha incautamente citato, come tratto distintivo della sua ipotetica idoneità alla leadership, il fatto di essere madre. Al contrario della May, che non ha figli. Il quotidiano ha enfatizzato e ci ha poi costruito il titolo. Le dichiarazioni della Leadsom, così come le ha presentate il giornale, erano effettivamente offensive nei confronti della May. Trasmesse da tutti i telegiornali e radiogiornali, riportate dai tabloids, le hanno attirato gli strali dei parlamentari vicini alla collega. 

Sulla Leadsom sono arrivate pressioni affinchè si ritirasse. “Quello che ho detto è che la maternità non dovrebbe giocare un ruolo nella campagna”, si è difesa in un’altra intervista con il filo-conservatore The Telegraph. Ma ormai la frittata era fatta. Durante la polemica, la May è rimasta in silenzio. Leadsom si è poi scusata con la rivale. Poi – in apparenza inaspettatamente – ha annunciato la decisione di ritirarsi citando il fatto di non avere il sostegno necessario (da parte dei parlamentari Tory) a costruire “un governo forte e stabile”.

Qualcuno ha detto che l’establishment è una macchina talmente sofisticata che non c’era modo per la Leadsom di avanzare. Insomma, c’è chi vede in tutta la vicenda una ben architettata cospirazione. Pianificazione o semplicemente passi falsi da parte di una politica relativamente inesperta? 

“Sono onorata e accetto con umiltà” di succedere a David Cameron, ha dichiarato la May, seconda donna primo ministro in Gran Bretagna dopo Margaret Thatcher. Sicuramente la May ha il sostegno della maggioranza dei parlamentari Tories. Ma resterà sempre il dubbio su quale delle due donne sarebbe caduta la scelta della base dei Tories se ci fosse stato il voto per il ballottaggio. 

I pareri di coloro che conoscono la May sono concordi sulle qualità politiche (ha guidato il ministero dell’Interno dal 2010), sull’etica di lavoro e sulla sua capacità di unire. Lei, nel suo messaggio, ha detto che il Paese ha votato per il cambiamento e che bisogna lavorare per un governo conservatore più vicino ai lavoratori e per un Paese “non per pochi privilegiati” ma per tutti. Per fugare i dubbi di coloro che non credono alla sua determinazione di portare la Gran Bretagna fuori dall’Ue, ha ripetuto che “Brexit vuol dire Brexit” e che non ci sarà un nuovo referendum. 

Ora l’aspetta l’arduo compito di cercare di unire un Paese diviso. E un partito conservatore che ha già mostrato le sue molte crepe e divisioni. Il problema di Theresa May è che è vista da molti come espressione dell’establishment. Formata a Oxford, in politica da anni, vicina a David Cameron e parte di quella elite che il voto del referendum ha voluto punire.