Nizza è uno dei centri dell’andirivieni dei foreign fighters che hanno ingrossato le fila di Isis e dei vari gruppi fondamentalisti che combattono in Siria ed in Iraq. Dalla ridente città della Costa Azzurra, di jihadisti ne sono partiti più di cento, anche minorenni: dall’aeroporto di Nizza, dai 14 anni in su (alcuni da soli e senza bagaglio), sono potuti partire tranquillamente per la Turchia per poi proseguire in Siria, senza che le autorità intervenissero. Non si tratta di episodi isolati, l’esodo è cominciato nel 2013: da allora, dalla Francia sono partiti più di mille aspiranti terroristi.
Il presidente Hollande, come in occasione dei precedenti attentati, nei vari interventi pubblici ha detto sostanzialmente che la Francia è simbolo di libertà che difende i diritti dell’uomo ma che questi sono “negati dai fanatici”, perciò è per questo che la Francia è “forzatamente il bersaglio”. Ed ha ribadito la “vigilanza assoluta” e una “determinazione senza falle” contro la violenza islamista.
Queste poche parole descrivono chiaramente che anche davanti a circostanze drammatiche, la dirigenza francese è ben lontana dal fare autocritica. Il metodo intrapreso per preservare lo status quo e mutare le relazioni economiche e geopolitiche a suo favore, è inconciliabile con quelle stesse libertà e diritti che lui dice di voler difendere con determinatezza.
La Francia ha responsabilità precise nel dilagare del terrorismo sul suo territorio: è uno dei paesi che più si sono adoperati a finanziare ed a inviare armi ed equipaggiamenti ai gruppi dei jihadisti che combattono in Siria; gli hanno fatto persino maestri d’armi (in basi situate in Turchia ed in Giordania), insegnando loro le tecniche di guerriglia. Tuttavia non c’è nessun segno di inversione: solo un paio di giorni prima che avvenisse l’attentato di Nizza, a fronte delle quotidiane stragi che il gruppo al Nusra infligge ai cittadini di Aleppo, la Francia ha espresso solo la condanna per le truppe governative che cercano di ricacciare i jihadisti dalla città e non ha speso una parola di cordoglio per le vittime dei terroristi.
Ancora oggi, nonostante sia straconosciuto che la cosiddetta opposizione armata siriana sia composta prevalentemente da formazioni salafite, la Francia continua pervicacemente a sostenere in Siria forze la cui violenza e ideologia hanno la stessa matrice di chi colpisce sul suo territorio. La maggior parte delle forze “ribelli” sostengono la nascita di uno stato islamico basato sulla sharia e sono tra loro parimenti demoniache. Ciononostante, la Francia chiede con forza che questi gruppi partecipino ad un governo di unità nazionale e di “transizione” e che dovrebbero essere inseriti, di diritto, in un nuovo governo senza il parere dei siriani.
La misura della moralità dell’establishment francese è sintetizzata dal suo ex ministro degli esteri Laurent Fabius. Nel 2012 disse pubblicamente che il gruppo terrorista Jabhat al Nusra (ramo siriano di Qaeda), responsabile di innumerevoli ed efferati crimini in Siria, “sta facendo un buon lavoro”.
In verità, si direbbe che i tagliagole sono riusciti a fare “un buon lavoro” anche grazie alla Francia: Parigi solo nel 2012 stanziò 1,2 milioni di dollari per finanziare la guerriglia in Siria. E già nel 2013 cominciò a mandare direttamente armi al Free Syrian Army unito ad Aleppo e ad Idlib alle forze fondamentaliste, anche con il parere contrario della Ue.
Sempre nel 2012, tredici ufficiali francesi vennero catturati ad Homs mentre stavano collaborando con i terroristi (fonte The Telegraph).
Ma non è tutto: secondo il giornale libanese al Sabat-News, Hezbollah, poco più di un mese fa, ha catturato alcuni “consiglieri” francesi in una zona controllata da Jabhat al Nusra. Più recente ancora è la segnalazione di forze speciali francesi in appoggio dei ribelli a Kobane e Manbej, nel nord della Siria.
In definitiva, la crescita delle forze jihadiste in Siria è il risultato del sostegno operato da parte della Cia, della Francia e delle monarchie del Golfo.
Alla luce di questi fatti, è evidente che i leader politici francesi (ed anche italiani), aiutati dai media, aprono e chiudono i rubinetti dell’indignazione popolare solo per giustificare ulteriori limitazioni delle libertà individuali (sovrano è colui che decreta lo stato di emergenza, diceva Carl Schmitt), ma nello stesso tempo persistono nell’alimentare ulteriormente il problema. E’ preoccupante, perché sembra che la politica della maggior parte dei paesi europei sia affetta da una sorta di sindrome dissociativa, una disunità, un’incapacità di correlare gli avvenimenti tra di loro.
Questo comportamento è descritto perfettamente dalla guerra voluta da Sarkozy in Libia che nella sua genesi, o meglio nella sua giustificazione e per la sua natura di “proxy war”, è la fotocopia del conflitto siriano. Come sappiamo, la Francia per distruggere e depredare si servirà del “Gruppo Combattente Islamico” (al Qaeda in Libia). Alcuni personaggi di spicco di questa compagine, come Abdelhakim Belhaj, li ritroveremo membri del Consiglio nazionale di transizione, l’organismo che per l’occidente sarà, a guerra finita, l’unico legittimo rappresentante del popolo libico: è così che dalla Libia al Qaeda dilagherà nei paesi confinanti e nel Sahel.
Le responsabilità descritte sono gravi, e visto che si cerca di tenerle volutamente nascoste si direbbe che se ne ha piena coscienza. Si direbbe che Hollande, come il suo predecessore, non consideri più la politica come perseguimento del fine collettivo del bene comune ma del Big Government che ha come scopo il perseguimento del massimo rendimento a qualunque prezzo.
La domanda è: cosa occorre che ancora accada prima che si capisca che è solo la moralità che non fa servi (“meglio eroi, santi e poveri” direbbe Péguy) e che per questo, lo stato la deve sempre preferire al massimo rendimento economico?