Ergenekon è un fantasma che si aggira per la Turchia sin dal 2007, quando iniziarono processi contro alcuni seguaci di questa organizzazione segreta laica ultranazionalista e filorussa, a cui apparterrebbero esponenti dei servizi segreti, dell’esercito, della polizia, oltre che intellettuali, avvocati e uomini d’affari. Il metodo di Ergenekon era ed è quello d’infiltrarsi negli organismi statali allo scopo di sabotarli, creare disordini e rendere quindi necessario un intervento dell’esercito. A quel punto i militari, forti del sostegno popolare e di grande autonomia, potrebbero realizzare facilmente un colpo di Stato. Lo scopo finale quindi sarebbe rovesciare il governo di Erdogan, ritenuto troppo vicino all’Unione europea e soprattutto legato a partiti e movimenti di ispirazione islamica, per sostituirlo con un governo militare che riporti il Paese nel solco tracciato da Ataturk.
Perché questo riferimento a una della tante sette oggi attive in Turchia? Perché ciò che sta accadendo in quella nazione altro non è che il progressivo devertebrarsi di uno Stato che fu per secoli il punto archetipale, con l’Egitto, prima dell’Impero Ottomano e poi del sistema di equilibrio instabile dei poteri che si delineò volta a volta dopo la prima guerra mondiale e poi con la fine del regime ataturkiano nel secondo dopoguerra. La Turchia entrò a far parte della Nato, ma questo non impedì la progressiva de-laicizzazione della nazione turca a cui i militari – e gli Usa – non seppero opporre altro che il ricorso a tre colpi di Stato sempre meno brevi e sempre più sanguinosi (1960-1970-1980).
Tutto precipita con la morte dell’uomo politico certo più interessante dell’eredità ataturkiana, Turgut Ozal. Questi fondò nel 1983 il Partito della Madrepatria (Anap), che guidò la nazione sino alla morte del Suo fondatore nel 1993. Il dominio di Ozal segna una svolta decisiva, quanto non prevista. Infatti, ispirandosi al generale processo di liberalizzazione economica globale, Ozal ha portato a termine una serie di grandiose riforme economiche che hanno trasformato in maniera profonda il sistema economico turco, appoggiando nel mentre militarmente e logisticamente gli Stati Uniti d’America durante la Prima guerra del Golfo. Ma la struttura economico-sociale turca proprio per queste riforme mutò tanto rapidamente quanto politicamente: la nuova borghesia turca che la liberalizzazione promosse era di orientamento musulmano e si riversò in una Istanbul che andò progressivamente trasformandosi, negli anni Novanta del novecento, fino a eleggere un sindaco di chiara ispirazione islamica: Erdogan!
Uscito che fu dal carcere in cui i militari lo cacciarono, si mise alla testa della nazione con una serie di travolgenti vittorie elettorali fondando il nuovo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp). Tutto iniziò nel 2002: l’Akp ottenne il 34,3% dei voti, diventando il primo partito del Paese e ottenendo una schiacciante maggioranza in Parlamento per via del sistema elettorale turco, proporzionale ma con uno sbarramento posto al 10% dei voti validi, oltrepassato nell’occasione soltanto da un altro partito, il Partito popolare repubblicano (Chp). Di lì la decisa lotta che aveva come fine lo smantellamento del potere dei militari con il progressivo indebolimento del potere della magistratura che si era autoriprodotto con tenacia e stretti legami massonici.
Erdogan è rimasto nella Nato solo per poter neutralizzare il ruolo degli Usa e dell’Europa in Turchia, cogliendo l’occasione del risveglio fondamentalista islamico come tempo propizio per rinnovare i bassi quadri dell’esercito con reclute fondamentaliste, creando corpi speciali di polizia in cui la presenza di Daesh è nota e preclara, come documenta il ruolo svolto dalla polizia medesima nell’organizzare i corridoi di penetrazione dei fondamentalisti islamici in Siria e in tutte le zone di crisi controllate dall’Isis.
Il sogno di una grande Turchia si trasformava da continuazione del destino ottomano in un nuovo nazionalismo panislamico che vedeva nella disgregazione statuale della Siria, dell’Iraq e della Libia l’occasione migliore per conquistare quell’influenza regionale che Ataturk non era stato in grado di affermare e che ora, sotto la bandiera del Profeta, si poteva prospettare come raggiungibile.
Ma l’esercito nei suoi alti gradi e le fazioni settarie proliferate nel corso del ventennio post-Ozal (di cui il famoso Gulen al quale si danno tutte le colpe è un’esponente, ma non il solo e forse neppure il più importante) rendevano manifesti gradi di insoddisfazione sempre più frequenti. Gli arresti durante la “crisi Ergenekon” rendevano evidente lo stato di fibrillazione e di divisione crescente nel seno stesso dell’esercito e dei suoi alti gradi a cui non riuscivano a opporsi né i fautori di un ritorno al kemalismo, né gli uomini di Erdogan, perché anch’essi erano investiti da divisioni crescenti come emerse con evidenza con le recenti dimissioni di Davutoglu, già ministro degli Esteri, il quale da delfino presto si trasformò in reietto.
La Nato – ed è questo il punto essenziale che spiega la crisi turca attuale – non svolge più quella funzione unificante dello Stato che un tempo, sin dalla seconda guerra mondiale, era stata in grado di svolgere. E questo in primo luogo per lo sfaldarsi di una chiara delineazione della strategia degli Usa a partire dalla guerra in Iraq, nel 2001. Tale crisi ha avuto in Medio Oriente il punto più basso della sua capacità di egemonia e di dominio insieme. Tutti contro tutti: questo è ora il contesto in cui si sono sviluppate le drammatiche ore di un breve colpo di Stato. Coloro che lo hanno ispirato non sono stati in grado di portarlo a termine con decisione e con quell’inevitabile crudeltà insita in tali decisioni. E l’indecisione è stata fatale: se hai un nemico uccidilo, non devi mai ferirlo soltanto. Machiavelli ci insegna a comprendere il destino dei popoli ancora oggi.