Donald Trump, nel discorso conclusivo della convenzione nazionale del Partito repubblicano, ha pronunciato battute sessuali o razziali? No, grazie al cielo. Ha enunciato programmi specifici? No, grazie al cielo. I “programmi specifici” sono quelli che i politici da bar sport (che vanno presi sul serio) sinceramente dicono di desiderare, ma in realtà quello che vogliono è qualcosa che li trascini e convinca; e sono quelli che i politici di professione (per esempio, Hillary Clinton) agitano di fronte alla folla sapendo bene che si tratta di carta straccia.
Invece Trump, il professionista del non-professionismo, ha lavorato su quella che è la sua specialità: le emozioni. Per lavorare sulle idee (cioè, per usarle politicamente), è consigliabile non averne: basta orecchiarle. Ma con le emozioni è tutt’altra cosa: non ci si può lavorare se non le si prova veramente, non si possono orecchiare le emozioni (vuol dire che le emozioni sono più importanti delle idee? Boh. Comunque, questo è un altro discorso).
A un certo punto, “The Donald” ha usato (o meglio, il suo scrivi-discorsi ha usato) la venerabile figura retorica dell’anafora, vale a dire la “ripetizione della medesima parola, o gruppo di parole, all’inizio di due o più frasi successive” (come dice il Vocabolario Zingarelli). Provarla per credere: una ripetizione ben ritmata di immagini concrete è più potente di una conferenza (è irrazionale? E’ pericoloso? Non lo so, e non è colpa mia: so soltanto che è così, per lo meno dai tempi di Demostene a oggi). Dunque, l’anafora: per rendere concreti i pericoli della vita sociale contemporanea (che frase astratta…) Trump ha cominciato a enunziare una serie di nomi di giovani di buona famiglia assassinati per futili motivi da irregolari della società. Il crescendo  stava funzionando bene (l’effetto dell’anafora, ovviamente, sta nell’accumulazione) —  ma improvvisamente lui si ferma, e “sciupa l’effetto” (apparentemente): “No —esclama — non ce la faccio più, sono sconvolto dicendo queste cose!” (non è una citazione parola per parola,ma questa era in sostanza la frase).
Ora, i casi sono due — e due soltanto: o Trump è un grande attore, e ha costruito questo effetto a tavolino con il suo scrittorello; o è stato uno spontaneo movimento emotivo. La prima ipotesi attribuisce a Trump una consumata, raffinatissima abilità, che a me francamente non sembra egli possegga (e che comunque smentirebbe quelli che per un anno si sono trastullati a trattarlo da mentecatto); oppure è stato un momento di commozione autentica.



Che cosa voglio dire? Che  l’esito delle elezioni  più importanti quest’anno, e per alcuni anni a venire, si giocherà tutto in un paio di dibattiti faccia a faccia tra i due candidati; e non sulle enunciazioni programmatiche, ma sui momenti di emozione.
“Non ho un cane iscritto a questa gara” (I do not have a dog in this race, per dirla all’inglese), perché non prenderò parte alla rissa elettorale. E’ dunque spassionatamente che dico: di fronte all’interruzione improvvisa che ho descritto, la Clinton — che certamente stava seguendolo alla televisione — deve aver sentito un momentino di panico.

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