Il sostegno dato da Ankara allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) e che continua a dare ad al Nusra (al Qaeda in Siria) e al gruppo Aharar al-Asham, è ormai un segreto di pulcinella che solo gli alleati della Nato e gli stati europei fingono di non sapere. L’Isil ha potuto sempre contare sulla vendita di petrolio ed il sostegno logistico in territorio turco. L’impunità data da una legislazione che non considera terroristi chi compie attività terroristica al di fuori del territorio turco ha permesso la libera circolazione dei criminali: gli stessi attentatori dell’aeroporto Ataturk, potrebbero essere passati anche altre volte per lo stesso scalo tramite la consueta rotta Tirana-Istanbul-Antiochia, senza alcun problema.
L’approccio europeo al problema è cambiato solo dopo che Isil ha colpito Parigi. Ma non subito. Per più di un anno, la coalizione internazionale contro Isis, ha proceduto con il “freno a mano tirato”: per non facilitare Assad, ha continuato ad usufruire degli utili servigi delle varie sigle jihadiste per realizzare i propri progetti geopolitici di divisione del medio oriente. Da parte sua, la Turchia, ha capitalizzato la sua partecipazione alla campagna antiterrorismo, unicamente in funzione anticurda.
Fino all’intervento russo, la coalizione anti-Isil ha messo in atto un’operazione di facciata: il suo compito (a giudicare dell’avanzamento compiuto a quell’epoca dall’Isil verso l’Iran), non è stato quello di tagliare le reti di trasporto terrestre del califfato ma di far collassare Damasco, ostacolando le sue vie rifornimento tra Iran e l’Iraq.
La pressione su Isil è stata minima: basti pensare che durante la campagna della coalizione formata da 60 nazioni, gli attacchi aerei contro Isil non hanno mai superato 15 al giorno. Di queste missioni solo una su quattro, si traduceva in un attacco. 
Il mutamento politico di Erdogan verso Isil è stato ancora più tardivo. Per anni la maggior parte dei jihadisti in ingresso in Siria provenienti da Kosovo, Macedonia e Bosnia-Erzegovina sono andati a combattere in Siria attraverso la Turchia tramite l’aiuto concreto dei servizi segreti turchi (Mit). I terroristi, una volta arrivati ad Ankara, transitavano prima nel quartiere Fatih di Istanbul. Qui un ufficio non ufficiale forniva loro aiuto per attraversare il confine con la Siria ed una paga iniziale di 400 dollari. L’aiuto non era solo limitato ai lasciapassare: secondo un procuratore turco (che ha pagato a sue spese con l’accusa di “spionaggio” l’aver denunciato le forniture turche ad Isil), più di 2mila carichi di armi sono transitati all’aeroporto di Esenboga di Ankara, quindi sono stati regolarmente scortati dal Mit e consegnati allo stato islamico attraverso la frontiera turco-siriana. Ai jihadisti feriti era assicurata anche assistenza sanitaria nell’ospedale di Hatay.



Attualmente esiste in Turchia una rete organizzativa fatta da associazioni, patronati, scuole teologiche musulmane e molte altre organizzazioni locali che svolgono ruolo di sostegno attivo pro-Isil in ogni città. Si calcola che circa il 7 per cento degli aderenti al califfato siano turchi. Di tutto questo, le autorità sono perfettamente a conoscenza. Tuttavia, i giornali turchi che hanno diffuso queste informazioni, sono stati tutti chiusi e i giornalisti licenziati o incarcerati.
Solo dal luglio 2015, a causa del rischio di isolamento internazionale (e per la forte pressione degli Usa), Ankara ha cominciato a partecipare alle operazioni aeree della coalizione contro lo stato islamico e solo all’inizio di questo mese, per la prima volta, i tribunali turchi hanno emesso le prime condanne all’ergastolo contro tre terroristi Isil.
Le cifre danno il tenore del problema: secondo fonti del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, da inizio anno, la polizia turca ha fermato 1.300 sospetti affiliati all’Isil, circa 350 sono stati arrestati. Mentre da luglio dell’anno scorso, alle frontiere sono state fermate 150mila persone di cui l’1,6 per cento di esse sono state identificate come sospetti terroristi. Di questi, parte sono stati arrestati e parte sono stati lasciati liberi di varcare il confine. La polizia turca inoltre ha rimpatriato 2.337 terroristi provenienti da 85 diversi paesi.
Il resto è cronaca: con una lettera (seguita da una telefonata a Putin) Erdogan ha chiesto scusa alla Russia per l’aereo abbattuto. Nello stesso tempo, ha cercato con un incontro ad alto livello di ricomporre la crisi diplomatica con Israele. Erdogan forse si è reso conto dello sfacelo a cui sta portando la Turchia, coni danni che ne derivano — tra gli altri — per l’economia e il turismo. Però il suo comportamento è ancora ambiguo: non cessa infatti, di trasformare lo stato in senso sempre più autoritario. Gli ultimi due provvedimenti legislativi sono esplicativi: con uno ha provveduto ad abolire  l’immunità parlamentare e con un l’altro l’ha data all’esercito.
Inoltre, l’altro ieri è stata respinta una mozione che chiedeva una commissione di inchiesta che facesse luce sulle complicità tra stato ed Isil. Difficile dire se questi fatti avvicineranno la pace in Siria. Finora, al di là della registrazione di un mutamento di strategia, tutto ciò che succede sembra non aver portato alcun insegnamento. 
I leader politici europei, quando la violenza disseminata si ritorce loro contro, chiamano ad un’evanescente unità con gli alleati ma non cambiano i giudizi di fondo: prevale l’idea che si siano fatti solo errori di strategia. In sostanza, il cambiamento visto finora da parte dell’Occidente e della Turchia, è registrabile solo nel numero di bombe destinate verso l’incomodo. Inutile dire che di una prassi interna di pace, vissuta a cominciare dai nostri paesi, non se ne parla; così i nostri comportamenti sono sempre funzionali a qualcosa e non veri, preoccupati più delle conseguenze che dell’essere e perciò deboli e inefficaci.



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