Le milizie libiche facenti capo al governo legittimo di Al Serraj hanno preso il controllo di Ouagadougou, quartiere generale dello Stato islamico a Sirte. Lo hanno reso noto via Twitter le stesse forze militari, ieri sera, al termine di una giornata densa di rivelazioni militari e diplomatiche. In un’intervista al Corriere della Sera, Fayez al Serraj, premier del governo libico di unità nazionale, ha ufficialmente chiesto aiuto all’Italia, avanzando una serie di richieste di carattere prevalentemente umanitario. Sempre ieri, Repubblica ha rivelato, citando fonti della Difesa, la presenza di forze speciali italiane sul terreno, con compiti di sminamento e addestramento militare. Ne abbiamo parlato con Michela Mercuri, esperta di relazioni internazionali.



Perché le richieste di Serraj (“chiediamo all’Italia qualsiasi aiuto possa darci”) oltre alla soddisfazione manifestata verso il nostro paese per aver concesso la base di Sigonella all’aviazione americana, arrivano proprio adesso? Che cosa sta succedendo?
Dopo mesi di impasse, questo sembra essere il momento di Serraj. Le milizie di Misurata fedeli al governo di unità nazionale hanno ottenuto importanti successi contro lo stato islamico, seppure con notevoli perdite. Il Gna (Governo di accordo nazionale, ndr) ha ottenuto l’aiuto militare americano, il che rappresenta, de facto, una importante legittimazione. E’ naturale che Serraj ora provi a chiedere tutto il supporto possibile.



Il premier libico accenna anche al pericolo rappresentato dall’Isis.
Certo. Sa bene cosa l’Italia è in grado di offrire, cioè basi e supporto umanitario e di addestramento, e sa bene quali sono le sue paure, vale a dire flussi miratori incontrollati e possibili infiltrazioni jihadiste. E’ esattamente su questa “dialettica” che il premier ha deciso di puntare per ottenere il più possibile dal governo italiano.

Repubblica, citando fonti della Difesa, ha diffuso la notizia di forze speciali italiane operanti sul campo autorizzate segretamente dal nostro governo. Ora sappiamo con certezza che siamo in Libia.
Fin dallo scorso aprile erano giunte indiscrezioni sulla presenza nell’est della Libia, e forse anche nell’ovest, di forze di intelligence italiane. L’obiettivo, è evidente, è non solo quello di sostenere il Gna di Serraj ma, con la possibile presenza di italiani nell’area controllata dalle milizie del generale Haftar, di “controllare” l’operato dei nostri presunti alleati, prima tra tutti la Francia. Le notizie trapelate in queste ultime ore non sono altro che la conferma della presenza dei nostri militari sul terreno libico.



Dunque il balletto di dichiarazioni e smentite, durato mesi, oggi è finito. E’ solo un caso?
Il fatto che siano uscite proprio ora potrebbe essere un modo per preparare l’opinione pubblica a una più intensiva azione italiana nel paese, sia con la concessione di basi per i raid americani, sia con un ruolo più attivo nelle operazioni sul terreno.

Ma esiste o no un piano effettivo di coordinamento delle forze alleate che operano in Libia, e qual è la parte di Serraj?

Il governo Serraj è stato creato dalla comunità internazionale anche — e forse soprattutto — con l’obiettivo di legittimare un’azione internazionale in Libia. Il premier libico ha più volte ribadito alcune richieste specifiche, come quella dell’intervento aereo e della non ingerenza nelle operazioni militari sul terreno (se non per i compiti di addestramento, eccetera), dimostrando una certa autonomia decisionale. Resta il fatto, però, che sono le varie potenze internazionali ad avere l’ultima parola sugli interventi da realizzare. Prova ne sia che la Francia, in barba alle decisioni prese nelle sedi internazionali, continua a sostenere il generale Haftar mentre gli americani, che pure ora sostengono apertamente il Gna, sembrano spinti più da motivazioni “altre”, come dare una mano a Hillary Clinton o un monito a Mosca, piuttosto che da un reale coinvolgimento nel progetto unitario.

Quali sono i precisi interessi dell’Italia in questa missione libica di cui oggi si è saputo con certezza?
In primo luogo, senza la stabilità della Libia l’Italia non potrà raggiungere l’obiettivo fondamentale di un contrasto serio agli scafisti e del conseguente contenimento dell’emorragia di sbarchi d’immigrati sulle nostre coste. Da questo punto di vista, come ricordato forse in maniera un po’ sinistra dallo stesso Serraj nell’intervista al Corriere, una stretta sulla lotta alla criminalità consentirebbe anche un’azione più efficace nel controllo degli jihadisti che potrebbero imbarcarsi dalle coste libiche. In secondo luogo l’Italia deve difendere i propri interessi economici nel paese. Infine, è interesse prioritario riacquisire un peso internazionale, in un momento in cui tutti i nostri presunti alleati perseguono, in Libia come altrove, i propri interessi nazionali. Partire dalla nostra “sponda sud” potrebbe essere l’unico modo per farlo.

Quanto pesa ancora oggi il non riconoscimento del Gna da parte di Tobruk e del generale Haftar, a proposito del quale Serraj dice che “il nostro dialogo con lui non è mai venuto meno”?
E’ questo il principale problema che si porrà nel dopo-Isis. Eliminato lo stato islamico da Sirte, resteremo, nella migliore delle ipotesi, con una Libia spaccata in due. Parte dell’est del paese è — e presumibilmente resterà — nelle mani di Haftar che, a sua volta, è appoggiato dall’Egitto, dagli Emirati, dalla Russia e dalla Francia. Tripoli, con il suo governo di unità nazionale, che però non è stato riconosciuto dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk, è supportato, tra gli altri, dagli Stati Uniti e dall’Italia. Schieramenti ed interessi ben precisi che, stanti così le cose, difficilmente potranno convergere. La domanda a questo punto è: sarà più semplice convincere tutte le parti in causa ad accordarsi per una soluzione davvero unitaria o ipotizzare una soluzione federalista?

Quante “Libie” ci sono oggi?

Ce ne sono per lo meno due, ma ci sono anche una serie di poteri territoriali, città-Stato, milizie e tribù che in taluni casi non si riconoscono in nessuno dei due “governi”. Da questo punto di vista solo con un processo “bottom up”, dal basso verso l’alto, sarà possibile tentare un dialogo reale tra i vari centri di potere.

Con quale obiettivo?
Se tale indirizzo venisse utilizzato per coinvolgere in maniera più incisiva tutte le istanze, comprese quelle dell’est, si potrebbe rafforzare una “rete” capace di bypassare — o isolare — Haftar, allargando il consenso alla Camera dei rappresentanti di Tobruk, tutelando coloro che hanno fin qui dimostrato apertura alle istanze unitarie ed isolando le fazioni separatiste. La domanda però è sempre la stessa: è davvero questo l’interesse degli attori che a vario titolo stanno giocando sullo scacchiere libico?

Ieri è stata diffusa una dichiarazione congiunta sulla Libia dei governi di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti, in cui i paesi citati auspicano la salvaguardia delle infrastrutture energetiche libiche e il trasferimento del loro controllo”alle legittime autorità nazionali”. Perché?
Il terminal di Zuetina, controllato dalle Guardie petrolifere vicine al governo unitario, è stato teatro negli ultimi giorni degli scontri tra le fazioni armate rivali nel Paese. La preoccupazione delle potenze firmatarie è più che legittima. La stabilità del Paese potrà essere conseguita in via prioritaria con la ripresa economica e questa passa anche e soprattutto attraverso la ripresa della produzione di petrolio, che era di 1,5 milioni di barili al giorno nel 2010 ed oggi è crollata a un quinto. Serraj ha affermato di poterla portare in tempi rapidi a 900mila barili. Previsione forse troppo ottimistica, ma da cui dipende la tenuta del suo governo ma soprattutto le sorti del paese.

(Federico Ferraù)