La mattina del 27 giugno scorso, nei saloni dell’Hotel Hilton, a Roma, sulla collina di Monte Mario, Bibi Netanyahu può annunciare ai giornalisti l’accordo con la Turchia. Il tenace mediatore della rinnovata intesa tra Israele e Turchia è il segretario di Stato americano John Kerry, che quella mattina sta lasciando Roma, dopo ventiquattro ore di incontri con gli esponenti dei due paesi.
Occorre partire da questa data e dal contenuto di quell’intesa, che chiude il contenzioso su Gaza, per agguantare i fili dei rapporti tra due delle potenze mediorientali.
A sei anni di distanza dall’assalto dei commando della marina israeliana al traghetto turco Mavi Marmara, diretto con aiuti umanitari a Gaza per rompere l’embargo, Israele accetta formalmente di fare le sue scuse alla Turchia. In quell’assalto dieci cittadini turchi (compresa una persona morta in seguito in ospedale per le ferite riportate) vennero uccise dai militari israeliani. Le scuse ufficiali sono state, da sempre, la prima delle richieste del premier e poi presidente turco Recep Tayyip Erdogan per riannodare le relazioni diplomatiche, politiche e commerciali tra i due paesi. Seconda richiesta, anche questa soddisfatta in quella mattina romana, è il risarcimento israeliano alle famiglie delle vittime. La terza richiesta era la fine del blocco navale israeliano a Gaza. D’altra parte, la Mavi Marmara era stata noleggiata da organizzazioni umanitarie turche per portare aiuti a Gaza, violando deliberatamente il blocco navale israeliano considerato totalmente illegittimo. Questa richiesta non è stata accolta nella bozza finale dell’intesa. Al presidente Erdogan è stato solo concesso di inviare un’altra nave con altri aiuti umanitari, la Lady Leila, che infatti attraccherà all’inizio di luglio nel porto israeliano di Ashdod, dando vita ad un convoglio di 500 autocarri carichi di tutto, dai generi alimentari ai giocattoli, che raggiungerà poi Gaza.
Questa intesa nei giorni a cavallo tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, è bene ricordarlo, ha provocato reazioni contrastanti tra gli israeliani. Plateali sono state le affermazioni di ministri e leader della destra come Avigdor Lieberman e Naftali Bennett che hanno condannato l’accordo con la Turchia, non avendo — a loro dire — Israele nulla di cui scusarsi. Tra i palestinesi, solo Khaled Meshaal, leader politico di Hamas, si è spinto ad affermare che Erdogan aveva raggiunto un’intesa utile agli stessi palestinesi. Viceversa, anche all’interno di Hamas, la fronda di coloro che giudicano l’accordo di giugno una rinuncia alle richieste iniziali è assai forte. E ormai tutti sanno che un altro leader storico di Hamas, Mahmoud Zahar, ritiene, invece, che il sostegno ai palestinesi di Gaza può giungere dall’Iran e non più dalla Turchia.
La valutazione politica delle reazioni all’intesa con la Turchia, compiuta da Netanyahu, è estremamente importante per comprendere le scelte politiche israeliane rispetto ad Ankara. E’ legittimo attribuire a Netanyahu un’ampia soddisfazione per la chiusura del contenzioso innescato dall’assalto alla nave Mavi Marmara.
Israele, infatti, non ha ceduto rispetto alla persistenza del blocco navale, ed ha solo concesso ai pescatori provenienti da Gaza di andare, a sua discrezione, oltre le tre miglia dalla costa. La permanenza del blocco navale e di quello terrestre, rafforzato dalla chiusura del valico di Rafah tra Gaza ed Egitto, rimangono dunque tra i capisaldi della “strategia” militare e politica di Israele e — si deve aggiungere — anche dell’Egitto guidato dal presidente Abdel Fattah al Sisi.
Quali siano le pericolose conseguenze di queste scelte sugli instabili equilibri mediorientali, questo sembra sfuggire ai politici e agli analisti israeliani, egiziani e di molti paesi occidentali. Assai meno sfuggono al segretario di quella Organizzazione che poi viene chiamata a fronteggiare le crisi umanitarie conseguenze dei conflitti (solo a Gaza ben tre nell’ultimo decennio 2008, 2012 e luglio 2014). Affermava il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, in visita a Gaza, nel giugno scorso: “Dobbiamo parlare apertamente delle inammissibili privazioni a cui deve far fronte la gente di Gaza alla luce dell’umiliazione, dell’occupazione e dell’assedio, così come della divisione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania”.
Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania, tuttavia, sono ora catalogati come luoghi di “conflitto a bassa intensità” e quindi derubricati dall’attenzione internazionale, con qualche sporadico sussulto, come quello recente della diplomazia francese che ha subito infastidito Natanyahu. Il grande e tragico mosaico del conflitto siriano assorbe invece, ora, l’attenzione preminente. Anche su questo terreno, oltre quello di Gaza, Netanyahu ha misurato le scelte dei governanti turchi. Erdogan è stato sin dall’inizio della guerra civile siriana nel marzo 2011 intransigente avversario del presidente siriano Bashar al Assad. Per relazioni connesse, si è opposto al sostegno politico e militare dell’Iran al leader di Damasco e all’invadenza delle milizie sciite libanesi degli Hezbollah, vero braccio armato dell’Iran, a sostegno di Bashar al Assad. Ce n’è a sufficienza per Netanyahu per guardare al presidente turco come un alleato di fatto nella sua strategia per contenere e colpire se possibile il regime iraniano. Un regime che aveva firmato con Barack Obama un’intesa sul nucleare nella speranza di un sollecito ritorno economico e commerciale dall’apertura dei mercati internazionali. Le sanzioni economiche a suo tempo imposte all’Iran, invece, sono state rimosse in minima parte. Una scelta politica internazionale carica di possibili gravi conseguenze.