La condanna da parte Putin dei raid aerei americani contro le postazioni dello stato islamico, a supporto del governo di accordo nazionale libico, apre un nuovo fronte di quella che parrebbe a tutti gli effetti una nuova “guerra fredda” tra Mosca e Washington. Le prime avvisaglie sono emerse lo scorso anno quando il leader del Cremlino ha dato il via all’intervento militare in Siria a sostegno di Bashar al Assad, contrapponendosi agli Stati Uniti che, di fatto, sostengono le forze anti-regime. Uno scontro che si è ulteriormente esacerbato di recente quando, dopo le tensioni tra Ankara e Washington seguite al fallito tentativo di golpe in Turchia, Mosca sembra aver teso una mano a Erdogan, forse più per indispettire gli Stati Uniti che per reale convinzione.
Anche la Libia, dunque, entra nella partita mediterranea tra le due superpotenze, con un evidente rimescolamento del già complesso risiko di alleanze e con altrettanti punti interrogativi per le sorti del paese, specie ora che lo stato islamico sembra quasi espulso dal territorio.
Il diniego di Mosca all’azione americana in Libia, che di fatto sancisce la convergenza tra Putin e il generale separatista Haftar, è solo l’ultimo atto di un avvicinamento già in corso da tempo ed i cui segnali sono via via emersi soprattutto dopo l’insediamento del governo di accordo nazionale (Gna) a marchio Onu. Un accordo che la Russia come peraltro alcune potenze europee — leggasi Francia — ha avallato sulla carta ma ha poi disatteso sul terreno, parteggiando, più o meno palesemente, per l’ala della Cirenaica. Non è un caso se proprio il generale libico il 28 giugno si sarebbe recato a Mosca ad incontrare il ministro della Difesa Sergei Shoigu e Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di Sicurezza russo, con il dichiarato obiettivo di convincere i vertici militari a sostenere lo sforzo bellico delle proprie milizie nella lotta al califfato, attraverso la fornitura di armenti, nonostante il divieto imposto dall’Onu di esportare armi in Libia. Non c’è da gridare allo scandalo visto che i supporter stranieri di tutti gli schieramenti forniscono mezzi attraverso triangolazioni estere e Putin potrebbe essere soltanto “uno del club”. Solo per fare un altro esempio, sempre lo scorso giugno, sono arrivati nelle casse della banca centrale di Beida, direttamente da Mosca, 200 milioni di dinari che sono stati distribuiti nell’est del paese per fare fronte alla crisi di liquidità, o più semplicemente per stipendiare le milizie di Haftar. Posto dunque che il filo che lega Tobruk a Mosca appare sempre più saldo, resta ora da capire cosa potrebbe cambiare nel quadrante libico. 



In primo luogo un rimescolamento nelle alleanze, con una Russia sempre più vicina alla camera di rappresentanti di Tobruk — che di nuovo pochi giorni fa ha votato l’ennesima bocciatura all’esecutivo di Tripoli — potrebbe inficiare ulteriormente gli sforzi per uno State building unitario.  Un ulteriore ostacolo, dunque, alla legittimazione di Serraj, proprio nel momento in cui, grazie all’intervento americano in suo supporto, pare aver conquistato un peso maggiore sia sul terreno, sia dal punto di vista della legittimazione internazionale, soprattutto ora che lo storico sponsor francese sembrerebbe addirittura voler defezionare. Secondo alcune indiscrezioni, comparse anche sui media italiani, pochi giorni fa le forze speciali d’Oltralpe sarebbero state ritirate dalla zona di Bengasi, in cui stazionavano da diversi mesi. Forse Parigi, con il suo immancabile pragmatismo, è disposta ad abbandonare l’alleato per salire su quello che per ora sembrerebbe il carro del vincitore? Difficile dirlo, ma una cosa appare certa: qualora vi dovesse essere una maggiore convergenza dei “vecchi alleati di Haftar” verso Tripoli, la Russia potrebbe costituire il maggiore ostacolo al progetto unitario.
L’ingresso a gamba tesa di Mosca nel quadrante libico, poi, potrebbe anche scompaginare le carte degli interessi economici che tanto stanno a cuore agli alleati occidentali, anche alla luce del fatto che, dopo il cambio ai vertici della commissione ad interim per la gestione del tesoretto da 67 miliardi del fondo libico Lia, si potrebbe sperare in un suo scongelamento, almeno parziale, a tutto vantaggio degli investitori esteri.
In un contesto così delineato, la Russia non solo costituirebbe un nuovo forte competitor nel business della ricostruzione ma potrebbe anche agevolare il ritorno dell’alleato cinese, già “fidelizzato” da Putin nella guerra in Siria. La Cina prima della rivolta aveva in Libia più di 30mila tecnici e contratti per circa 4 miliardi di dollari e certo ambirebbe ad un ritorno in grande stile.
Se, dunque, a differenza di molte potenze europee, la Russia non ha certo bisogno del gas e del petrolio libico, l’ex Jamairyia resta un tassello importante della sua grand strategy per il medio oriente e per sfidare lo storico avversario strategico americano.
Che ci piaccia o meno di questo si dovrà tenere conto nel “pensare il futuro del paese” e forse, più in generale, degli interi equilibri della regione.

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