Le elezioni presidenziali Usa ben rappresentano le tendenze che in definitiva sono in atto in una buona parte delle democrazie occidentali. Per questo possono svelare umori e sviluppi futuri da ben osservare utili anche per il nostro Paese. Nessuno avrebbe scommesso mesi fa un bottone sull’affermazione di Donald Trump nelle primarie repubblicane e avrebbe scommesso ancor meno sulla sua possibilità di contendersi alla pari con Hillary Clinton la Presidenza degli Stati Uniti. Trump, con linguaggio molto diretto e con affermazioni fortemente in controtendenza rispetto a queleo usato dal ceto politico, ha ribaltato ogni pronostico iniziale, giungendo realmente a sperare nella vittoria elettorale finale.
Qualche mese fa un amico statunitense, autorevole analista della politica d’oltreoceano, mi aveva messo già in guardia circa la difficile prova che i Democratici avrebbero dovuto sostenere contro un candidato repubblicano così fuori cliché. Niente a vedere con altri candidati del passato di quello schieramento, come il dirompente Ronald Reagan dell’inizio degli anni ’80. Infatti, l’ex attore hollywoodiano sosteneva con forza che il pubblico dovesse in ogni modo ritirarsi dalle attività economiche lasciando solo al mercato il compito di regolatore, ma nello stesso tempo, sosteneva con vigore il ruolo politico Usa negli scacchieri regionali del globo. Al contrario dell’attuale candidato repubblicano, infondeva fiducia nel futuro, non prendeva di mira preconcettualmente l’immigrazione, casomai desiderava regolarla.
Io stesso, giorni fa, reduce da una convention sindacale negli Stati Uniti, per la prima volta ho notato che il candidato del “Grand Old Party” è riuscito a fare breccia nell’elettorato delle Unions. Tradizionalmente le Federazioni sindacali di categoria affiliate alla Afl-Cio sono state le roccaforti del voto dei Democratici e non è stato mai pensabile un loro pur minimo disimpegno elettorale per il Democratic Party. Certamente in maggioranza i lavoratori, con qualche mugugno, voteranno la Clinton, ma da quello che si capisce una forza sotterranea, per la prima volta, si orienterà diversamente.
Sarà che i lavoratori con la lunga crisi hanno maturato qualche risentimento contro l’attuale establishment per i troppi pesi gravati su loro e sulla loro espulsione dalla middle class, sarà che la gestione Obama non è vissuta in modo soddisfacente dai più, sarà che la precarietà economica ha ravvivato sentimenti anti-immigratori, ma la somma di questi fattori si è rivelato vento potente per le vele di Trump. Il suo populismo ha scompaginato la politica americana; il politically correct deriso, rifiutato.
Ma il tallone di Achille dei democratici riguarda la percezione che gli elettori hanno della loro “amicizia” con gli ambienti della finanza. La candidata dei Democrats, in effetti, è ritenuta la più legata a Wall Street e certamente non amata per questa ragione da molti elettori. Una globalizzazione dominata dalla finanza ha sottratto ruolo alle democrazie che fanno fatica a riconfigurare un nuovo sistema di equilibrio tra il potere del denaro esercitato globalmente e quello delle persone dentro i sistemi politici nazionali. La difficoltà oramai a tenere in equilibrio il potere dello Stato, quello della democrazia e quello del mercato, che è abbondantemente straripato a scapito degli altri due.
A ben vedere questo è il tema che influenzerà l’orientamento di gran parte dell’elettorato americano, come le opinioni e le scelte degli elettorati delle democrazie occidentali. Nel breve volgere di questi ultimi lustri, i cittadini si sono visti cambiare, e rapidamente, impotenti, i rapporti di potere nei già precari equilibri tra chi è ricco e chi non lo è. È paradossale che siano gli schieramenti storicamente cosiddetti progressisti a essere più in difficoltà perché percepiti più vicini a quel dominante e assoluto potere.
Trump, insomma, rischia di vincere trasportato dall’onda di questi convincimenti, spinta che travolge ogni considerazione tradizionale e fondata su convincimenti consolidati su presupposti di altre epoche.