Come al solito, in Italia ci interessiamo sempre alle cose che non contano. Da due giorni sento incensare l’intervista di Lucia Goracci di RaiNews24 al presidente Erdogan come esempio di giornalismo con la schiena dritta: per carità, bravissima collega, ma diciamo che non ci troviamo di fronte alla versione 2.0 di Frost contro Nixon. Domande banali a cui il presidente turco ha risposto con sarcasmo e una difesa aprioristica della Mogherini – definita «persona chiara e verticale» – che francamente puzzava di provincialismo ideologico e di parte lontano un miglio. Parliamoci chiaro, la Mogherini ci ha messo quattro ore a blaterare le solite tre ovvietà la notte del golpe in Turchia, mentre si trovava a Ulan Bator per un vertice euro-asiatico. Insomma, la ministra degli Esteri dell’Ue non ha fiatato fino quasi a golpe finito: quale più plastica metafora serve per dimostrate l’insipienza e l’inutilità dell’Unione europea nel quadro internazionale?
Appare quindi normale la reazione di Erdogan, il quale ha chiesto alla Mogherini dove fosse, visto che non si è degnata di andare in Turchia dopo i fatti per valutare sul posto quanto accaduto e quanto stava accadendo. Stanno più comodi a Bruxelles a condannare le purghe e le epurazioni di Erdogan, non si sporcano le mani per capire cosa davvero sia successo. Poi, la questione dell’inchiesta della procura di Bologna sul figlio del presidente, definita da quest’ultimo motivo di tensione con l’Italia. Matteo Renzi ha risposto dicendo che i giudici nel nostro Paese rispondono alla Costituzione e non a Erdogan, ma il nodo resta: stiamo davvero capendo cosa stia succedendo in Turchia e, più in generale, in Medio Oriente? Tanto più che, come al solito, siamo pronti ad aprire le nostre basi per i raid statunitensi in Libia, ennesimo suicidio politico di una nazione che proprio a Sigonella dimostrò per l’ultima volta di avere una dignità (e, chi lo fece, pagò il prezzo che conosciamo per aver compiuto uno sgarbo agli Usa).
Per capire cosa davvero conta riguardo alla Turchia post-golpe, occorre leggere la stampa di quel Paese. Certamente non libera del tutto, anzi molto condizionata dal potere (mentre invece la nostra è liberissima, soprattutto contro certi poteri che casualmente siedono nei consigli di amministrazione delle case editrici), ma che quando riporta le parole del presidente è più che credibile. Il giornale turco Al Sabah, ad esempio, riferisce che Erdogan ha dichiarato quanto segue: «Assad ha condannato il colpo di Stato, mentre l’Arabia Saudita ci ha pugnalato alla schiena!». Questa dichiarazione è la prima presa di posizione chiara contro Riyadh da parte di Erdogan, il quale ha poi salutato, ringraziandolo, il presidente siriano per la sua solidarietà dopo il tentato golpe: «Nonostante l’animosità tra me e il mio omologo siriano, egli ha condannato il colpo di Stato, ma non i nostri alleati ci hanno abbandonato quando ne avevamo più bisogno».
A casa mia, questa, si chiama svolta epocale. Soprattutto per quanto sta accadendo in Siria, ovvero la preparazione dell’attacco finale per liberare Aleppo dal cancro dell’Isis e dopo il riavvicinamento nettissimo tra Erdogan e Putin, un qualcosa di impensabile solo un mese fa. Ma noi ci preoccupiamo della Mogherini e dell’inchiesta di Bologna. Magari Erdogan quelle parole non le ha dette, ma ha voluto testare la reazione delle parti in causa facendole uscire sulla stampa: a oggi, nessuna reazione, ma è presto e gli accadimenti sul campo parleranno più delle parole.
Dunque, ricapitolando, militari turchi filo-americani avrebbero tentato il golpe (su pressione di Obama e dei sauditi), convinti che non avrebbero trovato resistenza. Una base militare russa in Siria avrebbe intercettato i messaggi dei golpisti e informato il ministero della difesa russo, il quale avrebbe deciso di allertare il nemico Erdogan. Il quale, dal canto suo, ha quindi messo in atto le sue contromosse per sventare il golpe, ma nel contempo ha testato la lealtà dei suoi alleati, incassando tre duri colpi: l’indifferenza dell’Arabia Saudita, il no di Angela Merkel all’asilo politico in Germania e la freddezza degli Stati Uniti. Poi, la svolta filo-russa, di fatto un’assicurazione sulla vita per Assad e un colpo pesantissimo per il fronte sunnita del Golfo.
Di più, stando a fonti russe, l’organizzatore e finanziatore del fallito colpo di Stato in Turchia sarebbe nientemeno che un generale americano, John Campbell, l’ex comandante delle forze Usa in Afghanistan, il quale, nel corso dell’operazione, avrebbe invocato l’aiuto della Cia, interessata a finanziare il colpo di stato filo-americano in Turchia. Il denaro, più di 2 miliardi di dollari, sarebbe stato trasferito alla Cia attraverso la filiale nigeriana della Banca Centrale Africana: i soldi erano destinati a stabilire e rafforzare una rete di ribelli e consegnato agli organizzatori del colpo di stato in Turchia. Punto centrale del colpo di Stato era la base militare Usa di Incirlik, da dove partivano gli aerei, gli stessi che hanno attaccato il quartiere generale del governo ad Ankara. Infine, il fallimento del colpo di Stato sarebbe da imputare alla fretta: il rovesciamento di Erdogan è stato preparato per l’autunno, ma gli Stati Uniti temevano una brusca virata verso la Russia e hanno deciso di agire immediatamente. Detto fatto, se questa versione fosse confermata. avrebbero ottenuto l’effetto inverso da quello sperato.
Ora, poi, si apre un duplice fronte: quello siriano e quello libico. Dopo l’abbattimento dell’elicottero Mi-8 da parte di “ribelli moderati” e con i corpi dei cinque militari russi ancora in mano ai terroristi, Putin ha scelto la mano pesante: da un lato ha dato ordine all’aeronautica di martellare le postazioni Isis vicino ad Aleppo e, dall’altra, Mosca sta ammassando forze speciali – gli specnaz – a Khmeimim, con il compito preciso di recuperare le salme dei commilitoni ed eliminare tutti i responsabili dell’attacco e della profanazione dei cadaveri. Se non avete mai visto gli specnaz in azione, andate su YouTube: capirete da soli perché chi ha compiuto quello scempio farebbe meglio a suicidarsi subito.
Resta poi il grande interrogativo: cosa ha abbattuto il Mi-8? Mosca si limita a parlare di un “sistema d’arma”, non specificando altri dettagli. Ma se venisse confermato l’impiego di un sistema d’arma statunitense, le relazioni diplomatiche tra Usa e Russia potrebbero incrinarsi del tutto. E, in tal senso, ci sarebbe anche un precedente: lo scorso 10 luglio, un Mi-25 siriano è stato abbattuto da un missile BMG-71 TOW americano, mentre volava a bassa quota, uccidendo entrambi i piloti russi a bordo. In Libia, poi, i raid statunitensi su Sirte sono già stati bollati come «illegali» da Mosca e condannati dal governo di Tobruk, quindi gli schieramenti appaiono chiari fin d’ora: gli Usa hanno bisogno di rifarsi il maquillage davanti al mondo, spacciandosi per i nemici giurati dell’Isis e i liberatori della Libia, ma attenzione a una replica del 2011, quando l’Italia pagò il prezzo più salato a un altro interventismo, quello francese e britannico.
La Libia, inoltre, se destabilizzata, diverrà di fatto il serbatoio di un’ondata migratoria spaventosa, oltretutto nel pieno della stagione estiva, quando gli sbarchi sono all’ordine del giorno per le condizioni favorevoli del mare: gli Usa hanno già fatto sapere che i raid dureranno 30 giorni, ovvero tutto il mese di agosto. E a confermare il rischio sono i numeri, i quali ci dicono che l’Italia è sempre più la destinazione unica dei migranti. Azzerata la rotta spagnola (nelle sue due porzioni nordafricane di Ceuta e Melilla), ridotto al lumicino il corridoio ellenico-balcanico, l’unica strada percorribile resta il nostro Sud.
Lo confermano le elaborazioni sui dati forniti dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati: preso il totale dei migranti sbarcati in Europa nel mese di luglio, 93 su 100 sono stati registrati in Sicilia, Calabria, Puglia, Sardegna e Campania, mentre il resto in Grecia. Casualmente, la Spagna ha toccato la quota record di zero. Dal 1 gennaio al 31 luglio 2016 sono arrivati via mare in Europa 256.319 migranti: di questi 253.843 – cioè, il 99% – hanno messo piede sulle coste elleniche e italiane. Se in assoluto la Grecia mantiene per quest’anno il primato con poco più di 160 mila arrivi, a spulciare tra le tabelle fornite dagli organismi internazionali si scopre che di questi oltre 151 mila sono stati registrati nei primi tre mesi dell’anno, cioè prima dell’entrata in funzione dell’accordo con i turchi. Da allora, i nuovi ingressi sono crollati fino a 9mila in quattro mesi. In parallelo, in Italia è successo l’esatto opposto: dopo un avvio di 2016 modesto, con meno di 19mila migranti registrati nei centri nel periodo gennaio-marzo, altri 75mila sono sbarcati nei successivi quattro mesi, stando sempre sopra le ventimila unità mensili da giugno. Ma noi, furbi come volpi, non solo non diciamo nulla agli Usa ,ma, anzi, gli prestiamo anche le basi per bombardare meglio. D’altronde, da un governo che in un momento simile non trova di meglio da fare che le nomine ai tg Rai, cosa volete aspettarvi?