Ad Aleppo il grosso delle forze ribelli sono caratterizzate dal loro radicalismo islamico: in un conflitto che dura da cinque anni, molti di tali gruppi si sono fusi con altri ancora più estremisti.

Per liberare Aleppo e interrompere i continui bombardamenti sui quartieri residenziali, il 28 luglio l’esercito siriano ha iniziato l’accerchiamento di Aleppo est, la zona presidiata dalle milizie jihadiste. Il governo siriano aveva decretato un’amnistia ed i russi avevano garantito quattro corridoi per il passaggio di chiunque volesse lasciare la città. Ma i miliziani hanno impedito alla popolazione di uscire dalla zona ed hanno sferrato due controffensive, e sabato hanno lanciata la terza. L’obiettivo principale di quest’ultima iniziativa era quello di espugnare l’Accademia di Artiglieria del distretto di Ramouseh, principale caposaldo di difesa governativa.  



L’operazione lanciata dai fondamentalisti antigovernativi è la più grande mobilitazione militare mai effettuata da cinque anni a questa parte. 

Il contrattacco era stato preannunciato venerdì con un video in arabo. Nel filmato, il portavoce della coalizione al Fath Halab dice: “Adesso comincia la terza fase dell’invasione per liberare l’assedio e questa volta entreremo nell’accademia militare. L’operazione che effettueremo si chiama ‘Ibrahim Yusuf’, questo è il nome del grande eroe protagonista degli eventi che contrassegnarono gli anni 80”. 



Ibrahim Yusuf,  a cui i ribelli filo-occidentali dedicano il tentativo di conquista della roccaforte governativa, è il capo della milizia wahabita che nel 1979, durante la rivolta armata dei Fratelli musulmani, effettuò l’omicidio di massa di 80 giovani cadetti alawiti. Così prosegue il comunicato: “Era uno dei compagni di Adanan Okla, l’uomo che ha separato i sunniti nella scuola di artiglieria dividendoli dagli alawiti ed ha ucciso tutti gli alawiti, quasi 80 (e ne ha feriti altri 80) e dopo ne è uscito indenne”. E così prosegue: “Noi siamo i suoi discendenti e continueremo quello che lui ha cominciato, uccideremo questi alawiti come quella volta. (…) Noi legheremo i corpi dei loro cadaveri e li trascineremo per le strade e dopo li tortureremo anche da morti”.   



Il barbaro episodio che il miliziano esalta è effettivamente accaduto. Gli stessi gruppi che l’occidente si ostina ancora a considerare “moderati” si sono già resi responsabili di molti crimini, come il massacro di 190 civili alawiti avvenuto nel 2013 in provincia di Latakia e la decapitazione, pochi giorni fa, di un bambino malato.  

La “fase 3” preannunciata  è iniziata nella notte tra venerdì e sabato: le milizie jihadiste hanno attaccato le unità dell’esercito siriano da cinque direzioni diverse, utilizzando numerosi blindati e camion kamikaze pieni di esplosivo. Dopo cruenti combattimenti, la base di Ramouseh è stata presa quasi completamente. Tuttavia, dopo cinque ore di di battaglia durissima, le forze governative coadiuvate dall’aviazione sono riuscite a riprendere la base e le posizioni. Determinante è stato il ruolo giocato dall’aviazione russa i cui aerei si sono spinti ad effettuare attacchi a bassissima quota, fino a soli 200 metri di altezza.

L’armamentario sfoderato dai miliziani è stato senza pari, superiore di molto alla battaglia di aprile-maggio 2015 che portò alla conquista di Idlib, Ariha e Jisr-al-Shougur. Questo dimostra che nonostante il settarismo salafita non faccia mistero di sé stesso, Usa, alleati europei, Arabia Saudita, Qatar e Turchia non solo persistono nel sostegno militare e finanziario alla miriade di gruppi di jihadisti ma ultimamente hanno decuplicato i loro sforzi.

La consistenza di questi sforzi  è rilevante ed è di tipo politico, economico e militare. Nei soli mesi di dicembre e gennaio, gli Usa hanno mandato ai miliziani mila tonnellate di armi e munizioni. L’elenco analitico della commessa è ora di dominio pubblico (“US arms shipment to Syrian rebels detailed”). Parte integrante dell’appoggio politico occidentale avviene tramite la manipolazione dell’informazione attuata tramite le consuete tecniche di “Psyops”. Un’approfondita inchiesta del giornale londinese The Guardian, intitolata “The Syrian opposition: who’s doing the talking?“, pubblicata il 12 luglio 2012, ne ha svelato i retroscena. In ogni stato degli “amici della Siria” vengono messe in campo strategie mirate ad aumentare la reputazione di quella che governi “anti-Assad” chiamano “opposizione armata moderata”, spesso finanziando operazioni mediatiche indirizzate alla diffusione di una realtà costruita ed addomesticata (qui un esempio).

Ma della verità sulla guerra siriana non ne fanno più un mistero neanche gli stessi protagonisti: l’ex primo ministro del Qatar, sceicco Sheikh Hamad Bin-Jaber al-Thani, in un’intervista al Financial Times ha dichiarato: “Quello che è successo in Siria non era una rivoluzione, ma una disputa internazionale tra le potenze mondiali”. E vale la pena di menzionare anche Robert Kennedy Jr, nipote dell’ex presidente statunitense, che su Politico ha detto: “La nostra guerra contro Bashar al Assad non è iniziata con pacifiche proteste civili della primavera araba nel 2011”, ma “quando il Qatar ha offerto di costruire un gasdotto di 10mila milioni di dollari che attraversa l’Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia”. 

Un capitolo a parte sarebbe da dedicare al bombardamento mediatico scatenato sulle sofferenze patite dagli aleppini, imputate al solo assedio governativo.  

Il sistema adottato è quello di due pesi e due misure: l’accerchiamento di Aleppo si sta svolgendo con le stesse modalità impiegate per la recente liberazione della città irachena di Ramadi. Come forse ricorderete, le forze irachene sostenute dagli Usa hanno effettuato l’assedio della città di Ramadi senza che nessuno (Amnesty, HRW, le Nazioni Unite o altre organizzazioni) obiettasse nulla. L’unica differenza, tra i due assedi, è che a Ramadi  nessuno mandava le armi ai jihadisti prolungandone così la resistenza e, di conseguenza, l’agonia della popolazione.

Nei report quotidiani informativi vengono costantemente denunciati bombardamenti agli ospedali. Ciò è sacrosanto, ma la cosa andrebbe opportunamente verificata: ad esempio, quelli che impropriamente vengono chiamati “ospedali” sono quasi sempre consistenti in shelter, strutture mobili che fungono da centro sanitario per uso prioritario dei combattenti. 

 Un’esatta cognizione del problema viene descritta dal dott. Nabil Antaki, direttore di uno dei due ospedali di Aleppo (appartenente alla confraternita cattolica dei Maristi Blu). Leggendo la sua intervista sulla rivista internazionale Arret sur Info, si apprende che in una delle strutture sanitarie colpite il centro oftalmologico coesisteva con il quartier generale del gruppo terrorista al Nusra: è lecito chiedersi, a questo punto, come mai aziende che si curano della pubblica informazione, che hanno budget consistenti, non facciano quasi mai questo tipo di verifica.

Sembra veramente che i governi occidentali, più che ad Aleppo, vadano in soccorso a coloro che si ispirano a personaggi come Ibrahim Yusuf. In definitiva, le operazioni militari che si svolgono ad Aleppo sono congrue o incongrue ma non si possono dimenticare la diversità di motivazioni che ispirano i due fronti ed ignorare le grandi complicità e gli interessi che attraversano le vicende attuali.